cARTeggi – n. 1 – Marzo 2020ArticoloLA SOCIETÀ (S)CONNESSA |
ABSTRACT Il mondo delle relazioni nella società occidentale sta subendo rapidi cambiamenti e la diffusione della tecnologia ha velocizzato ed estremizzato l’evoluzione di processi già in corso. Gli apparati tecnologici, se da una parte permettono di farci sentire connessi agli altri anche nella distanza, dall’altra non valorizzano il rapporto umano nella sua dimensione corporea ed emotiva. I nostri corpi, infatti, nell’incontro risuonano per “simpatia” (syn-phatos = “sentire insieme”), e quella dimensione di condivisione e di rispecchiamento è ancora necessaria all’uomo. Perciò si manifesta in vari modi un senso d’insoddisfazione in una società che sconnette l’uomo da sé e dalla società stessa. L’origine di ciò è da ricercarsi in motivazioni storiche e culturali molto antiche, che sono state portate alla loro massima espressione in tempi relativamente recenti. Focalizzando l’attenzione su questi ultimi, si può riscontrare come da più di un secolo la società occidentale si basi sul modello uomo-macchina, nel quale il lavoro occupa troppo tempo ed energie. Il Taylorismo, in qualche modo, è stato applicato anche alla persona, che attraverso produttività e rendimento acquisisce merito. Questo sistema ha esaltato l’uomo nella sua entità di essere-razionale: la ripetitività, la prevedibilità, la moderazione sono qualità che appartengono alla sfera del pensiero, nella sua accezione di Razionalità. Tuttavia, osserviamo quotidianamente come tale modello non soddisfi affatto l’individuo, che ha un funzionamento ben più complesso di quello di una macchina. Si è lasciato da parte l’Uomo, nella sua Irrazionalità, che è impetuosa, imprevedibile, discontinua, ma che esiste, supporta e completa la parte razionale. E’ l’uomo nei moti del flusso emotivo, che sente gli impulsi e che risuona col mondo che lo circonda. E’ l’uomo che si muove con creatività nello spazio, nel tempo e nella relazione. Ciascuno di noi è alla ricerca di un equilibrio possibile tra questi due aspetti di sé: il “conflitto” tra mente e cuore è il frutto della mancata integrazione di alcune proprie parti. La nostra società, tuttavia, è sbilanciata sulla prima di esse: valorizza la mente razionale e il pensiero dicotomico che ha bisogno di analizzare, definire, separare, isolare le cose del mondo, e trascura l’importanza del nostro “essere animali”, accomunati e mossi da impulsi, emozioni e passioni. Facciamo dunque parte di una società che, per riflesso, tende a dividere e contrapporre attraverso la razionalità ma che non riesce ad unire e con-dividere con la stessa forza e intensità, con le relative conseguenze nei rapporti interpersonali. Questo processo, sviluppatosi in Occidente a più riprese nell’arco di secoli e accelerato dalle nuove tecnologie, ha raggiunto il culmine (ma è il culmine?) nella società narcisistica contemporanea, che celebra il singolo e tende ad annullare la collettività. Bauman espone gli effetti della società del mercato parlando dell’”uomo senza legami” (2006). Abituati alla gratificazione istantanea, non sappiamo più ricavare la felicità dalla costanza e dalla durabilità. Ciò che prima era un legame, ora è una “connessione”: ma ben diverso è l’investimento e l’impegno necessario per creare, sviluppare e lasciar andare questa nuova modalità di relazione. Non basta un “clic” nella vita reale, per diventare amici o smettere di esserlo: ci vuole presenza, costanza, sentire comune. Nella società dell’usa-e-getta, si rincorre un ideale d’indipendenza e di apparente libertà, che ci spiega Bauman essere solo una maggiore facilità, pagando tutto ciò ad un caro prezzo: la perdita di Sicurezza. Ciò si manifesta su differenti livelli, accomunati dalla presenza di un grande Vuoto interno all’individuo che chiede di essere riempito: presso Dipendiamo, centro per la cura delle New Addiction, fondato da Maria Chiara Gritti[1], studiamo come le Nuove Dipendenze trovino terreno fertile proprio nella “società dell’indipendenza”. Assistiamo, infatti, a una proliferazione di tali patologie, che soddisfano un principio pulsionale e di piacere e che sono accompagnate da una generale paura del legame e da un continuo bisogno di provare emozioni. L’uomo trova, attraverso l’Addiction, un apparente soddisfacimento e riempimento del Vuoto interiore, entrando in un circolo vizioso di insoddisfazione che non potrà nutrire in modo adeguato le carenze create dalla stessa società. Ovviamente rientrano in questo quadro anche le relazioni affettive e amorose. Rapporti effimeri e superficiali proliferano anche grazie alle “connessioni” in rete: si manifestano nuovi fenomeni, quali ghosting, cyber sex, sexting, amore virtuale, ecc…, manifestazioni digitali della difficoltà crescente di investire tempo e mettere impegno nella co-costruzione di una coppia basata sull’investimento. Tali modificazioni delle modalità relazionali non hanno luogo solo nel virtuale, ma trovano una loro manifestazione anche nelle caratteristiche fisiche dei luoghi: le città mutano e, con esse, i luoghi destinati ad accogliere le relazioni. L’antropologo Marc Augé (1992), nel definire i Nonluoghi, caratteristici della surmodernità, evidenzia l’omologazione, la transitorietà, l’estraneità dei luoghi nella città contemporanea (stazioni, aeroporti, centri commerciali, …) che determinano una specifica modalità di relazione, fatta per essere attraversata più che vissuta, e alla progressiva perdita del valore simbolico dello scambio relazionale. Una semplicità che è superficialità. Tuttavia, lo scambio simbolico è alla base della comunicazione, della relazione umana e della società. Adriano Favole, rifacendosi ai Nonluoghi, definisce la “Non-Società” contemporanea sulla base del carattere transitorio delle relazioni e della perdita di un sistema simbolico di riferimento. “Il mondo non è povero di beni materiali, ma di risorse simboliche e ideologiche per fare società e proporre nuovi modelli di convivenza, basati sull’interdipendenza”[2]. La perdita del valore del simbolico si manifesta anche nella sfera individuale con la perdita della sensibilità simbolica: cioè, la capacità di leggere il significato di ciò che sta fuori e dentro di noi. Paolo Mottana[3] specifica che tale sensibilità non è un apprendimento oggettivo, un contenuto esterno da imparare, ma l’acquisizione di una capacità, un modo di percepire le cose che ci circondano in modo più profondo: cioe’, una sensibilità.[4] “Sensibile” è tutto ciò che ci permette di ricevere impressioni attraverso i sensi: significa parlare delle nostre sensazioni corporee. Il corpo è radice di conoscenza: conoscere e riconoscere le nostre sensazioni ed emozioni è acquisire consapevolezza rispetto a sé e all’altro, per “sentire” la relazione, riconoscerne la qualità e lo scambio simbolico nella sua profondità. Dove c’è connessione profonda con il proprio corpo, può esserci la connessione profonda con l’altro. Non solo: il corpo è anche lo strumento principe per ascoltare la propria parte irrazionale e per integrarla con la propria razionalità. Integrare, non dividere. Per acquisire tale capacità è necessario ritrovare tempo e attenzione per porsi in ascolto di sé, proprio ciò di cui la nostra società frenetica tende a farci dimenticare. Ciò che vediamo al di fuori di noi è il riflesso di ciò che abbiamo dentro: dare attenzione alla nostra interiorità è dare attenzione al mondo esterno, al suo “interno”; al contrario, avere un atteggiamento noncurante nei confronti della propria interiorità porta sofferenza. Tale attenzione è necessaria per superare i rapporti superficiali della “surmodernità” e ritrovare un sentire comune di partecipazione e di risonanza tra dentro e fuori. Dunque, divenire “sensibili a sé” è importante non solo per il benessere dell’individuo, ma anche per quello della società ed è alla base del sentirsi parte di un tutto che si è andato via via perdendo. Il “regime diurno”, così come definito da Gilbert Durand (1963), con la sua volontà di dominare, calcolare, comprendere, oggettivizzare e spiegare, finisce per prevaricare, nella società odierna, il “regime notturno”, mondo della sensibilità, dell’ambiguità e della delicatezza. Così come Sole e Luna illuminano differentemente la stessa terra, così lo sguardo oggettivante del maschile non può regalare la morbidezza e la partecipazione del femminile. Quanto ancora la società ha da imparare dal mito di Icaro?[5] Considerato lo squilibrio di tali componenti nella società odierna, si sente necessaria una compensazione: volontariato e iniziative sociali nascono e crescono per accogliere il dolore e il senso di solitudine. Nella sola città di Milano dilagano, promossi anche o soprattutto tramite il web, eventi come gli “abbracci gratis”, il “muro della gentilezza”, gli “eye-contact”, oltre ad una serie di eventi connessi al ballo, come le “mazurke Klandestine”, il “tango illegal”, i “SAC”, ecc… Sono spesso iniziative promosse da semplici cittadini che danno sfogo all’inascoltato bisogno di contatto, di relazione, di partecipazione. Più recente, ma di rapido successo, è stata l’iniziativa di Sergio Anastasia, psicoanalista, che ha fondato su Facebook la pagina #aboutlove nella quale condividere esperienze e considerazioni riguardo il significato dell’Amore, nella sua accezione più ampia ed odierna. Anche in questo caso, il virtuale diviene mezzo per l’incontro reale con l’”altro”, incontro nato sulle premesse della profondità e della gentilezza e dove l’”altro” non è oggetto di riempimento dei propri vuoti. Ecco che, utilizzata con questa modalità, la stessa “connessione” in rete diviene una risorsa piuttosto che un limite, andando ad aumentare, e non sottrarre, le possibilità di autentico incontro. Non è tanto il mezzo, quanto l’uso che se ne fa. E’ il “come del cosa”. Tuttavia, la creazione di occasioni d’incontro può non bastare. Oggi, come esposto precedentemente, è anche il valore simbolico della relazione, e dunque la dimensione del sentire di ciascuno, a necessitare una particolare attenzione e indagine per rispondere al bisogno degli individui. La Danzaterapia Clinica, con la sua metodologia, può rispondere a tale bisogno, anche in caso di malessere profondo, per costruire una società più profondamente connessa. La connessione con l’irrazionale che c’è in noi, il ripristino del senso di fiducia e la possibilità della condivisione sono opportunità di trasformazione, anche collettiva, a partire dal sentire dell’individuo. La Danza ha avuto da sempre un profondo valore culturale, spesso con un significato mistico o religioso. E’ stata una pratica rituale usata come mezzo di comunicazione, di relazione e di conservazione dell’identità d’un popolo, oltre che un veicolo per le emozioni e per la loro condivisione. Questa è stata anche per le comunità un meccanismo psicologico perfetto per espiare paure e incontrare l’Irrazionale che abita ciascuno di noi e l’intera comunità. L’etnologo E. De Martino (1959) studia il valore del Tarantismo nella cultura popolare, rilevando come esso sia un esorcismo del dolore: un preciso dispositivo per le masse contadine al fine di guarire la malattia fisica e psichica, necessario quando le condizioni esistenziali sono precarie per salvare l’individuo dal naufragio e, non meno importante, per tutelare la compattezza del corpo sociale. Egli introduce così il concetto di “Presenza”, cioè l’unità della persona come centro operativo e culturale capace di produzione simbolica: la Presenza è la consapevolezza che l’individuo ha di sé. La precarietà minaccia questa Presenza, portando l’individuo a soffrire, a reiterare e a ripetere rigidamente i propri meccanismi. La funzione dello sciamano è quella di ricostituire i confini, divenuti precari, tra l’Io e il mondo e restituire la Presenza nella sua integrità. Lo Sciamano, “signore del limite”, è colui che sa padroneggiare la propria irrazionalità: un “terapeuta” che ha facoltà e tecnica di rievocare intenzionalmente una crisi per portare un messaggio di speranza e di salvezza alla comunità. Tale compito, assolto nella cultura popolare anche dalle funzioni religiose, non ha più spazio nella società odierna: “Dio è morto” (Nietzsche, 2010, p.334)[6] e con lui, come abbiamo visto precedentemente, un corpus simbolico di riferimento. Parto da qui, per approfondire il ruolo che la Danzaterapia Clinica può avere nella crescita individuale e nel suo ruolo sociale. Oggi, solo approfondendo la sensibilità personale e la sua capacità di risuonare con le sensibilità altrui è possibile fondare una nuova società basata su un reale senso di appartenenza: riappropriarsi del proprio sentire permette di “sentire” l’altro. Se il ruolo dello sciamano è essenzialmente sociale, il Danzaterapeuta Clinico lavora prettamente con l’individuo. La metodologia integra alcuni aspetti già presentati e trasforma la danza in un vero e proprio strumento di acquisizione di consapevolezza e di trasformazione. Contrastando il malessere prodotto dalla società, la Danzaterapia Clinica legittima l’esistenza e favorisce l’esplorazione dell’Irrazionale, delle emozioni, del proprio sentire: di tutto ciò che la società, ancora una volta in un pensiero dicotomico, ha chiamato “cuore”, dividendolo dalla mente. La Danzaterapia Clinica concepisce l’uomo, invece, come una totalità Corpo-mente che, in uno stato di Presenza, qui-ed-ora, in un’accettazione del momento presente senza giudizio, è capace di esplorarsi, di conoscersi, di entrare nella propria ombra. Attraversare col corpo il fluire delle emozioni permette di divenire sensibili a se stessi e di dare un tempo e uno spazio a quell’ombra, legittimandola nel suo esserci e nel suo trasformarsi. Accogliendola, potremo avere quello stesso sguardo di compartecipazione sugli altri. La ritualità degli incontri permette di introiettare un nuovo modello di relazione, attraverso il rapporto con il terapeuta che propone stimoli di profonda valenza simbolica, per sviluppare nella persona una relazione con il proprio corpo e con il terapeuta stesso: con sé e con l’altro. Per fare ciò, è necessario che il terapeuta sia consapevole di sé: egli utilizza la propria “videocamera interna” (il controtransfert) nella relazione con la persona. Perciò parliamo di Danzaterapia “clinica”: è la metodologia terapeutica adottata a rendere possibile la trasformazione. Il processo è emotivo e affettivo: gradualmente, la persona viene accompagnata in una trasformazione delle proprie dinamiche emotive attraverso la consapevolezza e la relazione. Il terapeuta, “signore del limite” anch’esso, permette alla persona, in un setting sicuro, di oltrepassare i propri limiti attraverso l’esperienza nel qui-ed-ora, esperienza che viene poi portata dalla persona stessa nella vita e nella condivisione con l’”altro”. E poi, la grande sorpresa di sentirsi profondamente vivi, incontro dopo incontro, grazie all’enorme potenziale della creatività, che con la sua funzione generatrice restituisce la speranza. “L’uomo si unisce col mondo nel processo di creazione” (Fromm, 1994, p.28-29)[7]. Vivere creativamente significa uscire dai propri rigidi meccanismi, trovare nuove soluzioni ai problemi, aprire lo sguardo sul mondo nelle sue infinite sfaccettature. Tutto ciò, attraverso il corpo danzante. Poiché se la danza è un movimento espressivo, la vita è una danza. E vale la pena scoprire tutto il suo potenziale, riconnettendosi con sé e con il mondo circostante. Una vera economia partecipativa non può che ripartire da qui. Nonostante tutto, gli uomini hanno ancora bisogno di associarsi, di relazionarsi, di sentirsi vicini. Tutta l’umanità funziona in maniera sociale e l’unico modo per risolvere l’alienazione globale è occuparsi dei propri vissuti individuali. E’ un obiettivo di portata enorme, ma è la sola strada percorribile. Ricordando a noi stessi, sia che siamo sul tragitto, sia che lo dobbiamo ancora intraprendere, che non possiamo sentirci in contatto con gli altri se non siamo in contatto con noi stessi. E ciò è responsabilità di ciascuno di noi. BIBLIOGRAFIA Augé M., (1992) Nonluoghi. Introduzione a una antropologia della surmodernità, Eleuthera, 2009 De Martino E. (1959), La terra del rimorso, Il Saggiatore, 2015 Durand G. (1963), Le strutture antropologiche dell’immaginario. Introduzione all’archetipologia generale, Dedalo, 2009 Favole A., La non-società, Corriere della sera – la lettura, 03.01.2016. Fromm E., (1956) L’arte di amare, Saggi Mondadori, 1994 Mottana P., “L’anestesia simbolica di una vita priva di sensi”, ArcipelagoMilano, 12 febbraio 2013, https://www.arcipelagomilano.org/archives/23565 Nietzsche F. (1885) Così parlò Zarathustra, Adelphi, Milano, 2010 NOTE [1] Psicologa e psicoterapeuta, autrice del libro La principessa che aveva fame d’amore, Sperling & Kupfer, 2017 [2] Favole A., La non-società, Corriere della sera – la lettura, 03.01.2016, p.4 [3] docente presso l’Università degli Studi di Milano e fondatore della “Pedagogia immaginale” [4] Mottana P., “L’anestesia simbolica di una vita priva di sensi”, ArcipelagoMilano, 12 febbraio 2013, https://www.arcipelagomilano.org/archives/23565 [5] Icaro, nella mitologia greca, è il figlio di Dedalo, costruttore del Labirinto di Cnosso. Fuggono entrambi da Creta, grazie alle ali costruite da Dedalo stesso e incollate alla loro schiena con la cera. Nonostante i moniti del padre a non avvicinarsi eccessivamente al sole, l’incontenibile entusiasmo di Icaro durante il volo porta il giovane a trasgredire: la cera si scioglie e Icaro precipita in mare, morendo. [6] Nietzsche F. (1885) Così parlò Zarathustra, Adelphi, Milano, 2010 [7] Fromm E., (1956) L’arte di amare, Saggi Mondadori, 1994 |
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