cARTeggi – n. 2 – Novembre 2020 Articolo |
Memoria e demenza sono apparentemente un ossimoro, dico “quasi” perché in effetti non è detto che i ricordi scompaiano, i ricordi sono lì, succede però che perdano organizzazione perché viene a mancare la dimensione temporale che dà loro ordine. Più che un ricordare sembra un affiorare, persone e fatti salgono alla superficie e tutto diventa contemporaneo: ecco che nei discorsi di mia madre – che si è ammalata nei primi anni duemila – compare suo padre (morto nel 1950), sua madre (morta nel 1983) e mio padre (morto nel 1984). Lei li vedeva, e ne parlava come se fossero presenti, o come se le cose a cui si riferiva il suo discorso fossero successe appena ieri. I sentimenti erano reali e molto vivi, coerenti con quello che provava anche quando era in salute: la rabbia nei confronti di mio nonno con cui non aveva avuto un buon rapporto, quella nei confronti di mio padre verso il quale aveva parecchio da recriminare, e la collocazione di mia nonna nel suo ruolo prioritario, visto che – fino a che ne è stata in grado – era lei che si occupava di fare la spesa e cucinare. Ciò non accadeva solo per quello che riguardava le persone, per esempio spesso diceva che doveva andare alla stazione per prendere un treno per Genova: in effetti lei amava Genova e la conosceva bene, da ragazza aveva passato mesi ospite di cugini, e il suo primo amore – quel bellissimo Luciano che ricordava con tanto trasporto – era Genovese. Nominava l’Arsenale Militare dove mio nonno lavorava e dove mio padre saltuariamente andava in trasferta dal Cantiere Navale dove lavorava, parlava del cibo che preparava perché lo consumassero durante la pausa (allora non c’era la mensa) e il tutto diventava: devo andare a portare da mangiare a mio padre (o a mio marito), come se fossero vivi e lavorassero lì. La malattia riorganizza a suo modo fatti e persone, riordina le relazioni interpersonali e le parentele, ed ecco che io non sono più sua figlia ma sua sorella, anche se continuo a essere sorella di sua figlia. È un mondo che ci si dispiega davanti, che possiamo solo osservare e assecondare, non ha senso opporsi al pensiero di chi si ammala di Alzheimer o comunque di una demenza, e questo è anche l’unico modo per assistere la persona malata senza causarle ancora più dolore e senza cadere preda di uno sconforto troppo lacerante. Fortunatamente, la mia esperienza di arteterapeuta mi aveva messo a contatto per una ventina d’anni con la malattia mentale, e potevo contare su molti anni di terapia personale: queste esperienze penso che abbiano contribuito molto a far sì che io potessi mantenere un rapporto “sano” con la sua malattia, consentendomi di non reagire al suo discorrere che alterava la realtà ma piuttosto di accompagnarla, quando possibile, nel suo percorso che non corrispondeva alla “nostra” logica ma senz’altro, assolutamente, alla sua. Ho scritto il racconto “Giuliuccia – leggendo nel pensiero di mia madre” mentre lei era ancora in vita, in un momento in cui avevo bisogno di mettere fuori da me quello che avevo dentro e che faticavo a trattenere. Il caso ha voluto che l’anno scorso – a sette anni dalla morte di mia madre – mi imbattessi nel bando di un concorso letterario indetto dall’Associazione De Banfield, un’associazione triestina che si occupa di anziani malati di Alzheimer e dei loro caregivers; il bando era riservato a racconti brevi che avessero a che fare con lo stare vicino a questi malati e il riconoscimento promesso era la pubblicazione dei racconti scelti in un volume dedicato. Sono pervenuti molti più racconti di quanti gli organizzatori si aspettassero, qualche centinaio, e la giuria, presieduta dalla scrittrice e filosofa Michela Marzano, ne ha scelto venti– tra i quali il mio – che sono stati raccolti e pubblicati nel libro “La Nonna sul Pianeta Blu”. Il libro è destinato soprattutto ai caregivers o comunque a chi è interessato a questi temi ed è disponibile sul sito dell’Associazione De Banfield a questo link. L’Associazione ha indetto un nuovo bando per la seconda edizione del concorso. La storia, che riporta parole veramente dette da mia madre, si svolge a La Spezia, città dove la nostra famiglia ha sempre vissuto. Tengo a precisare che si tratta di mie personali osservazioni, che non hanno fondamento scientifico. Ho scritto questo racconto mentre mia madre era ancora in vita, immaginando di seguire il filo dei suoi pensieri. Non parlo di me, parlo attraverso di lei, cercando un difficile ma possibile contatto empatico, credo riuscendoci. Giuliuccia (leggendo nel pensiero di mia madre)
Giulietta, Giuliuccia…Vaduccia! Sono come Vaduccia, quella de “L’Amante” di Yehoshua.[1] Sono… cosa sono ora… pianta, minerale, animale? Animale, sono ancora un animale. Sono qui in un letto, in una casa che non è la mia, con i piedi fuori dal lenzuolo… non parlo, la voce non so se ce l’ho ancora. Eppure io parlavo tanto, ma tanto, e gridavo anche. Ho gridato tanto, fino a che ho potuto. Poi è successa quella cosa, la mia testa ha cambiato casa, e non ho gridato più. La casa. Mi dicono che questa è casa mia, ma lo so che non è vero. È successo quel giorno in cui è cambiato tutto, era nei giorni di San Giuseppe, è successo qualcosa che non so, e mi hanno cambiato la casa di sotto i piedi. Perché io lo so che non sono mai partita, che non ho mai traslocato, ma se non sono mai andata via, perché questa non è la stessa casa? Ogni giorno, verso le cinque del pomeriggio mi agito e comincio a fare i bagagli per tornare a casa. Arrotolo il lenzuolo, se trovo dell’altra stoffa a portata di mano la prendo e la metto insieme al lenzuolo e faccio su un fagotto come quelli che si vedevano una volta, quelli che i contadini portavano appesi ad un lungo bastone, li reggevano sulle spalle. Ma allora quella negretta[2] mi dice “Tata stai tranquilla, tata no te agitare” e mi dà le gocce, così mi viene sonno e non finisco mai di fare i bagagli. Provo anche a tirarmi su, vorrei saltare la sbarra che hanno messo lungo il letto, ma non ce la faccio. E giù goccine. Non parlo più, non mi viene la voce. Prima erano solo le parole che mi mancavano, ora anche la voce. Mi sono dimenticata tutto. Viene una che mi sembra giovane (ma dice di avere quasi sessant’anni, mah) e l’altro giorno mi ha detto che è mia figlia. Sono stata così contenta! Non mi ricordavo di avere una figlia, e invece mi ha detto che ne ho due. A dire la verità di averne una con i capelli rossi me ne ricordo un po’, ma questa non me la ricordavo. Cioè, un giorno lei mi ha chiesto se la conoscessi e io le ho risposto “Certo che ti conosco, sei la sorella di mia figlia!”. Sono un po’ stordita, appannata, ma mi sono accorta che questa risposta le ha fatto male. Eppure, io non volevo offenderla, forse ho risposto così perché l’altra è stata la mia prima figlia, me la ricordo meglio. E poi questa non mi sembra una figlia, è quella che credevo fosse mia sorella, è più una sorella, è una bella cosa. Non si deve offendere, è una bella cosa, una bella cosa. Ma quando mi ha detto di essere mia figlia, stavolta le ho fatto un sorriso bellissimo e lei è rimasta proprio contenta. Meno male. È che noi che siamo così appannate non ci ricordiamo più bene perché conosciamo le persone, sappiamo che sono persone che ci sono vicine, che c’è dell’affetto, del sentimento, e allora non importa più se una è sorella, figlia, mamma… non facciamo più caso a questi dettagli. Ah, come sono stanca… Ho sentito oggi il dottore che diceva che sono così perché già due volte non dovevo esserci più e invece ci sono ancora. Eh, lo so bene. Lo so che non ho più niente dentro. Lo so che sono come un pupazzo, che nessuno mi può più dare la corda, che il meccanismo è troppo vecchio per trovare la chiave giusta che lo carichi. Lo so. Ma che ci posso fare? Mica posso morire da sola, no? Cioè, devo aspettare che succeda. Come si fa? Non ho neanche paura, non riesco a provare più niente. Solo, a volte, qualcosa mi fa sorridere. O qualcosa mi fa male. Ma non so neanche più dire dove mi fa male. Mangiare mi piace ancora: anche se mi danno tutto frullato che non capisco tanto bene cosa sia, mi piace ancora. Quando ho fame ma non è ancora pronto, siccome non parlo quasi mai, allora fingo di avere un cucchiaio in mano, di portarmelo alla bocca e di mangiare; tutto molto lentamente. Loro allora capiscono e mi dicono “tata hai fame?” e un po’ ridono, un po’ perché sembro un mimo e sono buffa, un po’ per tenerezza. Ah! Anche gli uomini mi piacciono ancora, ho fregato tutti quando tanti anni fa fingevo che non mi interessassero! Ho fatto il gendarme con quelle due povere figlie, le riempivo di divieti e di paure, ma a me piacevano gli uomini. La mia negretta mi porta di quei nipoti! Belli, grandi, non proprio neri, giovani… e mi fanno le carezze, mi dicono tata, mi danno i bacini… peccato che sono così ridotta male… mica posso più fidanzarmi, ma mi piacerebbe tanto! Io devo bere, devo bere perché ai vecchi gli serve tanta acqua. Ma io non sono più capace di bere. E allora questa qui mi dice “tata bevi” e mi mette una siringona piena d’acqua in bocca. A volte bevo, a volte non mi va e allora la sputo tutta, come i bambini, e un po’ mi diverto a farla venir fuori dalla bocca come da una fontana. Me ne frego, che mi pulisca, che mi asciughi, io potrò pure sputare in casa mia! Casa mia… se fosse poi casa mia… Ah, c’è un’altra cosa che mi piace. Una bambina nera, la nipote di questa qui che mi lava. È carina… È ancora piccola, è come un animaletto, come me. Ci vogliamo bene. Tra di noi parliamo, non capiamo niente di quello che ci diciamo ma siamo contente lo stesso. Le voglio bene alla bambina, è bella, tanto bella. Anche lei mi vuole bene. È forse la prima bambina che mi piace davvero, non mi ricordo se le mie figlie mi piacevano così tanto, mi sembra di no. Ma era difficile la mia vita allora. Tanto difficile. Una volta questa figlia o sorella che sia, mi ha chiesto “Mamma ma perché non eri così buona anche da giovane?” e io le ho risposto la prima cosa che mi è capitata dentro la testa, ho detto “Perché non ne avevo la forza”. Non so neanche perché le ho risposto così, ma si vede che ho risposto bene, ho risposto giusto, perché questa – che si chiama… non mi ricordo!), mi ha dato un bacino e sembrava soddisfatta. Non ho mai preso tanti bacini in vita mia. Non li sapevo dare e non li sapevo prendere. Sapevo solo comandare, e male. Ma ora me li godo tutti e ho persino imparato a darli. È bello, finalmente, poter essere buoni… e gli altri sono contenti e mi vogliono tutti bene. Mia mamma? Dove è mia mamma? La negretta mi dice sempre che è andata in piazza a fare la spesa, ma quanto ci mette a fare la spesa? E poi perché va sempre in piazza, perché non va alla Coop qui dietro? E mio papà, quello stronzo, era sull’armadio l’altro giorno, lo vedevo bene, spuntava la testa, ma questa tata mi ha detto di no, che è a navigare. Meno male, perché è uno stronzo. Anche mio marito, entra ed esce e neanche mi saluta. Uno schifoso anche lui. Io sono una maestra, avrei voluto insegnare, ma lui non ha voluto perché diceva che le maestre sono tutte puttane e vanno a letto con i direttori. Era geloso, pensava male di tutti, chissà, magari era lui che chissà cosa combinava in giro le poche volte che usciva la sera. E così, ho sempre dato lezione in casa, avevo tanti tanti bambini e ragazzi, mi piaceva, ma insegnare a scuola sarebbe stato più bello, sarei stata più importante, rispettata, avrei guadagnato molto di più. E poi me lo meritavo, ero bravissima a scuola io, la più brava di tutto l’Istituto Magistrale. Stronzo. Io devo partire, devo andare alla stazione, devo andare a Genova. Non so perché, ma devo andare, a mezzogiorno c’è il treno. Genova me la ricordo bene, mi piaceva. La casa, la casa! Questa figlia ha perso un sacco di tempo a spiegarmi che questa è casa mia, poi ha cominciato a dirmi che non la è, che mi ci porta a casa mia ma che ora mi sta facendo rifare il bagno che era brutto ed anche il riscaldamento, che ci faceva freddo. Mi sembrano tutte bugie. Fa apposta per farmi stare zitta, ma io zitta non ci sto. E se mi passa la febbre domani vedo se riesco a fare i bagagli, magari comincio un po’ prima, e scavalco la sbarra, e vado a casa. Qualcuno mi aiuterà, forse. Ma ho il catetere… questo tubino tra le gambe che a volte ci gioco è il catetere. Non importa. Io vado lo stesso. E che si provino a dire che casa mia è questa. Io vado a cercare la mia casa, poi mi siedo lì, e mi riposo. NOTE [1] “L’Amante” di Abraham Yehoshua, uscito nel 1977, pubblicato in Italia da Einaudi. “Sullo sfondo di una Haifa scossa dalla guerra del 1973, si dipana lo scenario de L’amante, il più sinceramente israeliano dei romanzi di Yehoshua. L’autore si affida alle voci dei suoi personaggi, ai loro sogni, ai ricordi, ai desideri, alle aspettative: sono le parole di Adam, agiato proprietario di una grande officina meccanica; le riflessioni della figlia Dafi, quindicenne insonne e ribelle; i sogni della moglie Asya, intellettuale precocemente ingrigita; gli stupori di Na’im, giovane operaio arabo; i vaneggiamenti della novantenne Vaduccia; e infine il resoconto stupefatto di Gabriel, l’amante scomparso. Mondi lontani, a dispetto dell’amore; voci tanto vicine quanto diverse che siglano l’impossibilità di conoscere veramente chi ci vive accanto.” [2] La parola apparentemente scorretta “negretta” è usata nel senso in cui l’avrebbe usata mia madre, classe 1923, non certo avvezza a frequentazioni multietniche. Si trattava di una straordinaria badante dominicana, alla quale mia madre e noi tutti volevamo e vogliamo tuttora molto bene. |
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