“L’incontro di due personalità è come il contatto tra due sostanze chimiche; se c’è una qualche reazione, entrambi ne vengono trasformati”
Carl Gustav Jung
ABSTRACT
In questo breve scritto parlerò della prospettiva relazionale intersoggettiva e di come la relazione paziente-terapeuta, concorre a creare dinamiche di cura e cambiamento. L’argomento sarà affrontato traendo spunto da alcuni cenni teorici e da una mia esperienza all’interno di un percorso di arteterapia svolto all’interno di una scuola dell’infanzia e da varie riflessioni sul ruolo dell’arteterapeuta.
Quando si parla della relazione terapeuta – paziente, la “relazione” è uno di quegli ingredienti indispensabili per favorire la “cura”. Per capire meglio l’importanza che ricoprono le relazioni in un contesto di cura sarà necessario citare alcune teorie e modelli che avvalorano questa tesi.
La prospettiva psicoanalitica classica, di carattere “unipersonale” veniva utilizzata fino alla prima metà del ‘900 e tutto ruotava attorno alla teoria delle pulsioni. Le funzioni imputate all’oggetto erano perlopiù quelle di soddisfare desideri, pulsioni, piaceri al solo scopo narcisistico. Scopo dell’analisi era la risoluzione dei confitti del paziente, passando da un “conflitto patogeno” a un “conflitto normale” e rafforzare l’Io. Il ruolo dell’analista, era quello di “spettatore” mentre, quello del paziente di “attore”, le resistenze e il transfert del paziente erano i principali oggetti d’analisi. Il controtransfert era visto da Freud, come un ostacolo per l’analisi e considerato il derivato di una resistenza del paziente nei confronti dell’analista.
La visione “unipersonale” verrà soppiantata nella seconda metà del ‘900 da una visione “bipersonale”; spiegando alcuni dei fenomeni che intercorrono nello sviluppo dell’individuo. Grazie alla rinuncia narcisistica, noi riusciamo a riconoscere la soggettività dell’altro. L’oggetto, non è più il mezzo per la pulsione di raggiungere la sua meta, quindi soddisfare la pulsione; ma, lo scopo che ci spinge verso l’oggetto è la “relazione”. Mediante la scoperta dell’altro, riconosciamo noi stessi e stabiliamo un contatto. Quando due energie si incontrano, avviene uno scambio, un dialogo che ci permette di dare vita ad una relazione.
Secondo, la prospettiva “relazionale intersoggettiva” il paziente, non è più descritto come un insieme di strutture predeterminate, ma di strutture derivanti da esperienze vissute dal soggetto nel campo interpersonale, inter-relazionale ed intersoggettivo. Le basi che hanno permesso un cambio di paradigma è il “modello relazionale intersoggettivo”.
Scardinare le vecchie visioni ha permesso di costruire modelli e teorie, dando il via a nuovi scenari e orizzonti nel campo delle Scienze Psicologiche: stili di attaccamento, modelli della mente, sviluppo del Sé etc.; proposte da diversi autori tra cui Fairbairn, (1952); Sullivan (1953); Bowlby, (1969,1973,1980) ; Kouth, (1971); Kernberg, (1976); Stern, (1985); mostrando quanto le relazioni interpersonali svolgono un ruolo importante nello sviluppo della personalità e crescita psichica dell’individuo.
Bowlby con la teoria dell’attaccamento (1969,1973,1980) pone l’accento sulla dimensione relazionale come bisogno primario innato, e di come i legami di attaccamento che si vanno a instaurare – studiando il rapporto madre-bambino – possano influenzare lo sviluppo psichico e affettivo del soggetto. Da adulto l’individuo consoliderà delle proprie strutture interpretative e agirà i propri Modelli Operativi Interni (MOI) costruiti sulle basi dello stile di attaccamento sperimentato, determinando le modalità con cui vivrà i rapporti sociali e i suoi legami d’affetto.
Winnicott porta avanti alcune ricerche riguardanti i rapporti oggettuali primari e nel suo principio d’integrazione (1945) introduce il concetto di “holding” (sostegno) ed “handling” (manipolazione). Il bambino potrà sperimentare l’angoscia senza esserne pervaso, grazie al contenimento empatico esercitato da una “madre sufficientemente buona”. Le cure del caregiver consentono al bambino un’integrazione mentale e corporea nel suo processo evolutivo; queste fasi delicate sono importanti per sostenere lo sviluppo del Sé e l’unità psicosomantica.
Da queste prospettive vorrei evidenziare come si evince da vari studi, come un ambiente sicuro e accudente possa favorire e talvolta determinare una crescita psichica sana dell’individuo.
L’esperienza di un percorso di arteterapia difatti, a partire già dai 5 anni d’età può promuovere e rafforzare il benessere psichico del bambino, attraverso la ricerca e la conoscenza del proprio Sé. Ne integra la capacità di autoregolazione emotiva e comportamentale, riconoscendo ed incrementando quelle che sono le risorse personali, di gestione e di risposta tra mondo interno ed esterno.
In questa fase evolutiva, il cervello del bambino è molto plastico, la capacità di apprendimento e adattamento è maggiore, le reti e i circuiti neuronali sono molto più flessibili e malleabili. Un ambiente qualitativamente stimolante in cui poter fare delle esperienze formative aiuterà l’individuo a crescere, individuare dei percorsi preferenziali di integrazione tra le varie aree cerebrali e a seconda del proprio vissuto strutturerà e svilupperà nel corso del tempo delle strategie più o meno funzionali. L’individuo riuscirà a corrispondere alle difficoltà della vita e superare momenti o fasi critiche di cambiamento, fragilità e vulnerabilità, eventi traumatici perché avrà accesso a maggior risorse da cui poter attingere e quindi fronteggiarle con maggior successo.
Le mancate elaborazioni dei traumi, possono nel corso del tempo portare la persona a trovare delle risposte poco funzionali e se sommate a esperienze insoddisfacenti, costruire e riprodurre schemi di comportamento maladattivi. In adolescenza, se protratti possono concorrere a interrompere o ostacolarne i compiti evolutivi, essendo questa una fase di sviluppo di per sé molto complessa, e se consolidati in un secondo tempo ne rendono difficile la sua conversione. Secondo il funzionamento della “mente relazionale” concetto introdotto da Siegel (1999), le esperienze relazionali hanno un grosso peso nel processo evolutivo di una persona perché i circuiti neuronali (memoria, attenzione, emozioni, autoconsapevolezza) si possono sempre modificare, essendo insito nell’uomo la capacità di auto-organizzarsi, facente egli stesso parte di un sistema vivente complesso che tende alla neghentropia, quindi in un sistema aperto, in sviluppo. Attraverso il processo d’integrazione la persona potrà essere più o meno in grado di fare una buona ricostruzione mentale della realtà e mentalizzare; tutto ciò permette all’individuo di organizzare la propria mente e autoregolare le proprie emozioni mantenendo un equilibrio omeostatico. Quando viene a mancare la capacità di mentalizzare le emozioni il soggetto tenderà a somatizzare. Quando si costruiscono per esempio dei pattern neurali disfunzionali, derivanti da un attaccamento di tipo insicuro, il soggetto avrà difficoltà a strutturarsi e auto-organizzarsi, tenderà all’entropia. In questo caso lo scopo della terapia è quello di modificare quei pattern disfunzionali ed attivarne altri, per fare ciò è importante che la relazione tra terapeuta e paziente sia efficace e funzionale.
Attraverso il caso di Irvin, che riporterò qui di seguito, illustrerò brevemente come le relazioni interpersonali e il processo creativo possono contribuire a trasformare un’esperienza dolorosa come quella di un lutto sostenendo la sua elaborazione.
Secondo la teoria dell’attaccamento la fase di separazione ed individuazione equivale a una perdita, a un lutto. La separazione dal proprio oggetto primario d’amore può essere più o meno traumatico a seconda delle caratteristiche strutturali e risorse personali proprie dell’individuo e nell’ambiente in cui è inserito il soggetto.
Irvin, ha 5 anni e da circa 9 mesi dal nostro primo incontro ha subito la perdita della madre, a causa di un tumore. Proviene da un ambiente socio-culturale medio-alto, vive solo con il padre e ha con lui un rapporto simbiotico, probabilmente il lutto è stata la causa del suo instaurarsi considerando che non ci sono altre figure di riferimento stabili.
Dal punto di vista emotivo il bambino, tende a trattenere i suoi stati emozionali. Visibile dalla postura molto composta, eretta, statica e fissa. Ha uno sguardo serio e osserva con attenzione, personificando per certi aspetti un ruolo da adulto; ha buona padronanza e controllo del linguaggio, nell’esprimersi e nel modulare il timbro vocale. Nei confronti del gruppo è socievole e ben integrato. Mostra sin da subito sicurezza e autonomia nell’utilizzo dei materiali; la creta e gli acquerelli saranno gli strumenti principi che lo accompagneranno in questo percorso di trasformazione.
La creta lo aiuterà a scaricare le tensioni che vengono esercitate dall’assunzione del ruolo che vuole mostrare all’esterno, comprimendo ciò che sente all’interno per non trasmettere i suoi stati d’animo visibili nel comportamento, negli atteggiamenti e posture che tende ad adottare. Attraverso varie manipolazioni e nel battere intensamente la creta con le mani, Irvin riesce a rompere questo schema rigido. Il corpo, incontro dopo incontro si scioglie e diventa più libero nella postura e nei movimenti, riuscendo ad esprimere gradatamente le sue emozioni, sia durante il processo creativo sia durante la verbalizzazione, Irvin è più propenso al gioco e nel percepirsi nel suo ruolo di bambino.
Nel processo creativo riuscirà a costruire una narrazione, che permetterà al bambino di guardare e osservare il lutto per trasformarlo in altre forme, e nei suoi contenuti, attivando dei cambiamenti, per accedere a un processo di separazione e individuazione per quanto riguarda il lutto e il rapporto simbiotico che ha con il padre.
Nell’elaborato di creta vediamo una casa di topolini, definita così da Irvin. Mi descrive un ambiente domestico confortevole che contiene un’intera famiglia dove si può mangiare, dormire e svolgere altre attività al suo interno.

Inizialmente costruisce una piccola struttura contenitiva, che abbandona riponendo la creta di risulta nel panetto con energia, è distratto dalle chiacchiere della compagna e decide di fare nel frattempo un altro elaborato. Quando successivamente riprende in mano la forma di creta lasciata in disparte ne triplica il volume. In questo lavoro accede a contenuti intimi e profondi, molte le trasformazioni e i significati che il bambino apporta a questo elaborato dedicandogli molto tempo, costruendolo pezzettino per pezzettino, cura i dettagli e i particolari. Queste sono alcune frasi che dice mentre lavora : “Sto facendo una tana per topi…”; “Mi piacciono tanto…”; “Faccio una nuova famiglia di topolini…”; “ Faccio una tomba per il topolino…”. La compagna le domanda perché fa una tomba e che le fa paura… lui dice che così tutti gli altri topi possono vederlo e andare a trovarlo sulla tomba. Attraverso la narrazione spontanea e il gioco simbolico che il bambino mette in atto durante l’esecuzione del suo elaborato, affronta la tematica del lutto, riuscendo a condividerla, instaurando un dialogo tra il suo mondo interno ed il mondo esterno. Alleggerisce il suo carico emotivo, compiendo un processo di rielaborazione ed accettazione. Questo distaccamento procederà per gradi. Durante questo incontro in verbalizzazione, la tana per topolini diverrà un grande bruco. Negli incontri successivi mediate vari interventi, colorerà la creta asciutta insieme al suo compagno, facendola diventare una nave spaziale

che metterà al centro della tavoletta di legno, attorno alla quale posizionerà delle altre navicelle fatti di pezzi nuovi e vecchi di creta da lui prodotti durante gli incontri. La navicella grande comunicherà attraverso un casco con le altre navicelle amiche, questo è quanto afferma. Nel suo ultimo lavoro

la navicella diventerà una casa che metterà vicino ad un’altra casa, costruita in collaborazione con l’amico dando vita ad una fattoria, in cui ci sono persone, animali, cibo etc., completando così questo suo percorso.
Da queste evoluzioni percepiamo come le varie trasformazioni hanno aiutato il bambino a trovare nuovi significati, e di come le relazioni siano state una componente importante e di sostegno per la sua realizzazione e un ulteriore motivo di crescita.
“Le situazioni di perdita generano tristezza e disperazione, che a loro volta muovono all’empatia e alla compassione, e queste ultime stimolano l’immaginazione creativa a produrre antidoti alla tristezza e alla disperazione.” [1] (A. Damasio, 2018 – p. 199-200)
L’arteterapeuta, fornirà quindi al paziente una base sicura, offrendo un modello di attaccamento sicuro, per sostenere e promuovere lo sviluppo del Sé e rafforzare le sue risorse interne.
Con il “modello relazionale intersoggettivo” è possibile analizzare cosa accade nella relazione terapeuta – paziente e le dinamiche che entrano in gioco, ed è grazie all’incontro di due soggettività che possiamo metterci in-relazione. Lo “spazio interpsichico”, è quella dimensione relazionale di reciproca influenza, ed è proprio in questo spazio che l’azione terapeutica costruisce le sue fondamenta.
Il cambiamento, può essere incentivato da come il terapeuta instaura la relazione con il paziente e nello stabilire un’alleanza terapeutica, attivando e favorendo tutti quei presupposti di cura, supportando i processi di guarigione e il conseguimento degli obbiettivi terapeutici che si possono raggiungere.
Anche il gruppo, riveste un ruolo importante nella cura. In questo “spazio interpsichico” il paziente avrà modo di sviluppare e rafforzare la sua identità, ed attraverso le relazioni, i conflitti e il confronto con l’altro progredire ed evolvere. L’arteterapeuta conduce il gruppo trasmettendo confini e regole ben definite; creando un ambiente e un clima funzionale e sereno che permetta e favorisca attraverso il processo creativo “la cura”, rispettando ogni singola soggettività, differenze patologiche, tempi, modalità e possibilità; sostenendo in modo ottimale il processo, contenendo i vissuti che il paziente non riesce a reggere.
Nella relazione terapeuta – paziente, non mancheranno occasioni di transfert e controtransfert, il terapeuta deve esserne consapevole e in grado di riconoscere quando ciò avviene. Il transfert permette all’arteterapeuta di cogliere e ricostruire alcune parti del passato emotivo-affettivo e dei momenti di vita significativi del paziente, diversi i modi, perlopiù inconsci in cui questi si mostreranno.
Potrà comprenderne le dinamiche e vedere come si esprimono all’interno del percorso terapeutico e osservare: reazioni inappropriate, reazioni emotive intense, sentimenti d’ambivalenza, di volubilità o persistenti. Queste sono alcune delle principali caratteristiche del transfert evidenziate da Albertini (2012). L’arteterapeuta dovrà inoltre fare in modo di spostare sentimenti, problematiche conflittuali etc. nel lavoro artistico in modo da alleviare la tensione e far dialogare l’opera con il paziente creando una “triangolazione transferale” (paziente – opera – terapeuta). Nel caso in cui il paziente, non riesca a fare questo spostamento sarà l’arteterapeuta, che fungerà da contenitore e supporterà i contenuti dolorosi del paziente, in modo da alleggerirlo e fargli ritrovare il coraggio e la fiducia che gli servono per orientare le sue problematiche nell’arte, ridimensionando il transfert rivolto al terapeuta.
Nel controtransfert i contenuti interni del terapeuta, possono essere riattivati dal paziente, attraverso il linguaggio verbale o non verbale, il processo è inconscio. Per evitare di proiettare i propri contenuti interni ed attribuire questi al paziente, il terapeuta dovrà individuare quando ciò accade e gestirli nel modo più appropriato. Non deve offrire al paziente ciò che non gli serve in quel momento, involontariamente può procurare problemi o danni leggendo il materiale esposto dal paziente in modo distorto producendo ipotesi fuorvianti, rispetto a quello che in realtà ci sta o vuole comunicare in quel frangente e nel suo percorso.
“In veste di arteterapeuti, quando osserviamo un paziente che fa uso di una tecnica artistica che conosciamo bene e che troviamo interessante, possiamo esprimere inconsapevolmente una risposta controtransferale”. [2] (C. Albertini, 2012 – p.179)
L’esperienza controtransferale, se vista ci permette di conoscere meglio il paziente, le sue modalità relazionali primarie e avvicinarci al suo mondo interno. Il terapeuta, riuscirà a connettersi e creare un legame empatico e rispondere alle necessità di quest’ultimo in modo ottimale; dovrà conoscere il linguaggio del corpo, cosa esprime e saper filtrare le proprie emozioni. Con la scoperta dei neuroni specchio (Rizzolatti et al. 1996; Gallese et al. 1996), si è visto come tutta la parte non verbale possa agire in modo inconscio ed influenzare la relazione, semplicemente osservando l’azione prodotta dal soggetto che stiamo guardando in quel momento. I neuroni specchio sono dei neuroni motori che si attivano automaticamente, noi riconosciamo un azione perché in primis ne abbiamo fatto esperienza, riusciamo a comprenderne l’intenzione, lo scopo, grazie a un meccanismo di simulazione incarnata (Gallese, 2003a ,2003b, 2005a, 2005b, 2006); attingiamo dalla nostra storia che è fatta di rappresentazioni costruite nel corso del tempo, con un proprio vissuto personale, ed una memoria corporea fatta di sensazioni ed emozioni. Questo ci permette di relazionarci e metterci in-contatto, in-relazione, “essere con” (Stern, 1995), mantenendo un buon controllo e stabilendo un giusto coinvolgimento empatico nei confronti del paziente. I neuroni specchio, si attivano anche mediante l’ascolto o nella lettura di testi astratti o molto descrittivi.
“Pertanto possiamo ipotizzare che in arteterapia la fase della verbalizzazione, in cui il paziente descrive il processo artistico e l’intenzione o l’emozione provata, potrebbe attivare sia nel gruppo che nell’arteterapeuta che ascolta, gli stessi centri motori che presiedono l’esecuzione di quanto descritto dal paziente. L’effetto sui pazienti che ascolta, presuppone che, all’esperienza personale con la propria arte, andrebbe ad aggiungersi il vissuto emotivo ed esperienziale degli altri componenti del gruppo. (…) Questo arricchimento personale non investe solo la sfera cognitiva, ma affina la sensibilità e le potenzialità empatiche personali”. [3] (C. Albertini, 2012 – p.179)
Un arteterapeuta deve aver ben presente di quello che accade all’interno di una seduta di arteterapia, riconoscerne i meccanismi per poterli maneggiare ed aumentare le proprie capacità d’ascolto e di empatia. Anche a seduta terminata l’opera continuerà a parlarci, ci saranno delle risonanze che si attivano anche in assenza del paziente, l’opera riflette il paziente e alcuni meccanismi di proiezione del terapeuta possono emergere. Possiamo imparare molto entrando in-relazione con l’opera ma ponendo attenzione in ciò che stiamo facendo. Il paziente è una persona fragile e deve essere tutelato in primis dal terapeuta, che dovrà sostenere, contenere, proteggere le difese, le sue parti inconsce e consce, per aiutarlo nel suo percorso di guarigione e può farlo bene se agisce con consapevolezza e con cautela.
“Quando una sensazione dolorosa ci spinge a trovare una soluzione per eliminarla, il successo della terapia è indicato da una sensazione: quella di un dolore che a poco a poco svanisce.” [4] (A. Damasio, 2018 – p.198)
BIBLIOGRAFIA
Albertini C., Arteterapia nel trattamento delle psiconevrosi, Cleup, Padova 2012.
Caprara G.V, Cervone D., Personalità, Raffaello Cortina Editore, Milano 2003.
Concato G., Manuale di psicologia dinamica, Alefbet, Firenze 2006.
Gallese V., Migone P., Morris N.E, La simulazione incarnata: I neuroni specchio, le basi neurofisiologiche dell’intersoggettività ed alcune implicazioni per la psicoanalisi – Psicoterapia e Scienze Umane, 2006, XL, 3: 543-580, http://www.psicoterapiaescienzeumane.it
NOTE
[1] – [4] Damasio A., Lo strano ordine delle cose, Adelphi, Milano 2018.
[2] – [3] Albertini C., Arteterapia nel trattamento delle psiconevrosi, Cleup, Padova 2012.
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