cARTeggi – n. 2 – Novembre 2020

Editoriale

TIC TAC, TIC TAC
di Sara Ornaghi, Psicologa-Psicoterapeuta ad indirizzo psicosomatico, Arteterapeuta Lyceum

Volta stellata della Cappella degli Scrovegni, Padova
Giotto, 1303-1305


TIC, TAC

TIC, TAC

TIC, TAC…

….il tempo scorre…oppure sembra essersi fermato…oppure si è dimenticato di noi…oppure non esiste…oppure…

A volte il tempo è un coniglio bianco che ha troppa fretta, a volte è il nostro caffè che si raffredda nella tazzina posata sul tavolo; a volte è la pelle che si secca esposta ai primi freddi autunnali; a volte, come in questo periodo, è l’attesa e la tensione perché tutto torni alla normalità.

Il tempo è uno o ce ne sono tanti? Ma se ci sono tanti tempi allora qual è quello “vero”? Esiste un tempo più “vero” di un altro?

Qua, in questo luogo (ovunque voi stiate leggendo), il tempo è quello che segna il nostro orologio. Qua, sulla Terra, come ci ricorda Gianni Menghini nel suo articolo, citando Re Salomone nelle Ecclesiaste: “Per ogni cosa c’è il suo momento. C’è il suo tempo per ogni faccenda sotto il cielo”.

Mentre noi qua sotto il Cielo siamo presi a portare avanti le nostre vite ai tempi del Covid, tra mascherine, Lockdown, quarantene, nel Cielo il Tempo, almeno come lo intendiamo noi, non esiste, così come ci racconta la fisica quantistica [1]. Nel Cielo non esistono un presente, un passato e un futuro, ma esistono infiniti “presenti locali”, che dipendono dal punto da cui osserviamo e da cosa decidiamo di osservare. Il prima e il dopo dipendono da relazioni locali (quindi non valide in assoluto e men che meno oggettive) e dalle variabili che si vuole prendere in esame.

Mentre il tempo presente, come noi lo intendiamo, si estende solo nelle nostre immediate vicinanze, sopra le nostre teste si aprono milioni di “presenti”, di “adesso”, dipende da cosa guardiamo. E proprio perché la nostra visione è limitata e distorta, possiamo parlare di Tempo solo in funzione di un cambiamento che osserviamo: l’unico modo che abbiamo per dire che è passato del tempo è perché osserviamo un solo particolare, ad esempio il raffreddarsi del caffè nella tazzina posata accanto al pc mentre scriviamo. Ma se osservassimo qualcos’altro? Se osservassimo il disordine che assumono le molecole della tazzina, sarebbe passato lo stesso tempo? Probabilmente no! In realtà il mondo può benissimo fare a meno del “nostro tempo”, della nostra limitatezza nell’osservazione, della selettività con cui lo leggiamo. Può fare a meno di un’idea di Tempo, che varia in funzione dello spazio in cui siamo: lo sapevate che il tempo è più lento in montagna rispetto alla pianura? Eliminata l’idea di Tempo, l’unica cosa che possiamo osservare è il continuo divenire, che dipende dalla relazione tra osservatore ed osservato. Ed è un’osservazione anche questa limitata, perché scegliamo (arbitrariamente) cosa osservare, tagliando fuori dalla nostra visione tutto il resto, altre variabili, altri significati, che ci farebbero vedere un divenire diverso, un tempo diverso. [2]

Il divenire, insomma, pare essere l’unica certezza. Chiamarlo tempo è un nostro errore linguistico: semplicemente non abbiamo le parole adatte, il linguaggio è limitato, categorizza e quindi elimina esperienza, semplifica la complessità in cui siamo immersi, con cui stringiamo una fitta rete di relazioni.

Questo nuovo numero di cARTeggi, attraverso i contributi portati da tutti gli autori, sposta il riflettore di volta in volta su un modo di intendere e significare il Tempo. E il riflettore, che può cogliere solo un breve e locale presente, illumina di volta in volta una modalità, una scelta di significare ed osservare il tempo. Assume  forme artistiche e poetiche nella presentazione di Giada Bolognesi e forme suggestive nel fumetto di Ileana Donato e Margherita Allegri.

Gianni Menghini ci riporta alla complessità di tale concetto, al modo in cui l’uomo lo ha affrontato con diversi linguaggi: dalla suggestione immaginativa dell’arte, alla filosofia, alla fisica quantistica, alla religione, alla musica. Per provare ad avvicinarsi alla natura profonda, numinosa, del Tempo, l’uomo non ha potuto fare altro che cercare diversi linguaggi per coglierne, di volta in volta, un aspetto.

Gli antichi Greci avevano quattro vocaboli per definire il tempo: Kronos, la temporalizzazione sequenziale degli aventi, il tempo che misuriamo coi nostri strumenti; Kairos, il momento supremo, giusto, opportuno per svolgere un’azione; Aion, il tempo eterno, il tempo di Dio (ripreso in tutte le religioni); Eniautos, che rappresenta materialmente un anno, simbolicamente il tempo ciclico, che ritorna. Questa quaternità voleva forse cogliere l’essenza archetipica del Tempo che è contemporaneamente sequenziale ed eterna, vita e morte, che riguarda il Mondo, ma anche l’Anima…che solo incontrandosi nel momento giusto favoriscono la piena espressione della volontà e della realizzazione di Sè.

Volontà che esprimiamo nella concretezza terrena attraverso gesti, che hanno un ritmo.

Nel contributo di Luana Bigioni il tempo diviene il ritmo della danza, della sintonizzazione che unisce e cura.

Ritmo che scandisce i tempi del corpo e della vita organica, a partire dal respiro, al battito del cuore, ai gesti quotidiani. Il ritmo è il valore temporale di note musicali: quando i ritmi si combinano, ne esce una composizione armonica, creativa, vivificatrice e, in ottica terapeutica, curativa.

Matisse, “La danza”, 1909-1910


Il ritmo è un tempo umano, terreno, è nel qui ed ora del setting terapeutico, che ha una regolarità, un inizio ed una fine: è un Kronos che contiene, ma anche un Kairos in cui l’Anima ha un momento opportuno per esprimersi. Nel setting i gesti ritmici diventano una storia narrata: un “presente locale”, con un suo passato ed un suo futuro, insieme ad altri “presenti locali” che si raccontano e si intrecciano in un continuo divenire, prendendo la propria forma, il proprio ritmo, il proprio significato.

E chissà come sarà il futuro di questi “presenti locali” che si intrecciano? Come ci ricorda l’attore Massimo Popolizio nella pièce teatrale “Copenaghen”, nei panni del fisico Heisenberg “A volte due elettroni possono incontrarsi, per una frazione di secondo. Dopo di che ognuno prenderà una sua direzione e ad ognuno non è dato di sapere che traiettoria prenderà l’altro” [3]. Una cosa è certa: sicuramente sarà una traiettoria diversa da quella originaria. Parole da tenere a mente per noi terapeuti, metafora di ogni incontro, di un tempo, che pare a volte infinitesimale se paragonato ad una vita intera.

 

Rappresentazione del bosone di Higgs, particella elementare osservata per la prima volta nel 2012 negli esperimenti ATLAS e CMS, condotti con l’acceleratore LHC del CERN di Ginevra


Ce lo ricorda e lo sottolinea Marcella Marchi raccontando dell’esperienza del lutto vissuto nell’infanzia, come un incontro possa favorire processi curativi. Riprendendo la metafora fisica dell’incontro tra elettroni, da questa scienza sappiamo che la posizione di una particella è conoscibile solo nel momento in cui viene intercettata da un’altra particella: è quindi il momento, l’attimo, il tempo dell’incontro che ci permette di sapere dove è collocata nello spazio. È nel momento dell’incontro nel setting terapeutico, in uno tempo definito, determinato, collocato che l’Altro s’incontra. E il ritmo contenitivo del ripetersi del setting, la stabilità, la continuità, la presenza costante del paziente nella mente del terapeuta, sono condizioni imprescindibili affinché quel tempo dell’incontro, misurabile, logico, sequenziale, possa diventare il tempo dell’Anima, del divenire di un processo analogico dell’inconscio, in cui azioni riparative e trasformative possono accadere.

È lo spazio transizionale, come ci ricorda Loretta Molteni, in cui la logica e la temporalità del mondo reale si incontrano con la non-logica, l’analogia e la non temporalità del processo riparativo del processo artistico. E allora il tempo sofferto, che ha portato dolori e rotture, diventa il tempo creativo e generativo per trovare forme e strutture nuove, che impreziosiscono e rendono unica ogni storia di vita, ricordandoci che sotto il Cielo c’è anche il tempo per poter essere fragili e potersi ricostruire.  

E se sotto il Cielo si può essere fragili, sotto il Cielo si muore anche. Il tempo sulla Terra è il tempo del nascere-vivere-morire, per poi ricominciare il ciclo, con nuovi semi e nuovi germogli piantati nella terra di un incontro, per quanto breve. Ce lo racconta con parole commoventi Elena Gianella, nella relazione terapeutica sperimentata con una paziente oncologica: il tempo limite della vita, la morte, diviene “magicamente” il tempo di una rinascita. La magia ci viene palesata davanti agli occhi come la natura del mondo. La magia non è razionale, non risponde alle leggi di causa-effetto, alla linearità sequenziale di Kronos. La natura del mondo non è razionale, è una rete di continui presenti che si incontrano, che diventano il miracolo del ciclo vita-morte-vita-morte, che non si arresta mai, che non ha un senso razionale ma è solo il divenire del mondo, fuori dal Tempo a noi noto. Semplicemente “è”. Un eterno presente.

Haiku giapponese   –  
In questo giorno
che tramonta
sono caduti i fiori di ciliegio


Patrizia Virtuoso, ricordandoci il tempo degli sguardi sopra le mascherine in cui siamo calati, ci riporta ad un tempo da noi già vissuto qualche mese fa, in realtà mai finito, ma che ritorna, nel momento attuale, con tutta la sua intensità a ricordarci la forza della Vita, per quanto spaventosa, limitante, angosciante intorno a noi. È il tempo del non contatto, della distanza, della chiusura, della paura. È il tempo degli sguardi sopra le mascherine. È il momento dello sguardo su cui siamo invitati a porre la nostra attenzione per rendere il contatto più significativo, in mancanza di altro. Quello sguardo che per Kohut è il “brillio negli occhi della madre” e che permette di percepirsi come degno d’amore e strutturare un valore di Sé integro e saldo. Quello sguardo che ora le neuroscienze ci dicono essere fondamentale per la strutturazione neuronale e psichica. È il tempo del contatto di sguardo, in cui le pupille dei soggetti che si incontrano si dilatano, catturando tutta la luce intorno, brillando d’amore, che nei primi anni di vita favorisce le connessioni neurali per una buona strutturazione psichica dell’individuo. [4] È nel ritmo sintonizzato di incontri di sguardi che la relazione si instaura e la mente può germogliare.

Picasso, “Maternità” 1905


Nel tempo ciclico che ritorna nel suo eterno divenire, la mente germoglia e la mente sfiorisce, come accade nelle malattie degenerative del sistema nervoso. Nell’Alzheimer la mente sfiorisce nelle parti più alte delle sue chiome, mentre il tronco e le radici persistono maggiormente: si perdono le memorie più vicine al presente, mentre resistono le memorie antiche, le memorie sensoriali e procedurali e le memorie relative a luoghi e persone del tempo passato. La mente nell’Alzheimer perde la sua struttura logica e sequenziale, non perde il tempo interiorizzato, incarnato, su cui si è strutturata la propria mente attraverso azioni e affetti.

Gianna Taverna ci racconta di questa dimensione del tempo attraverso il racconto intimo e personale “Giuliuccia”.

Nella malattia di Alzheimer Kronos pare quasi divorare se stesso: Titano, figlio dell’Eterno (fu generato da Gea – la Terra – e Urano – il Cielo) che divora i propri figli, nella malattia è il tempo stesso che distrugge, mediante un atto de-generativo, tutto ciò che ha generato nell’arco di una vita.

Rubens, “Saturno divora il figlio” 1636-1638


Il tempo nella malattia degenerativa viene meno, non c’è distinzione tra un momento e l’altro, è continuo, confuso, senza una direzionalità, mentre nel mondo quantico della materia il tempo è granulare, fatto di istanti infinitesimali, discreti, separati uno dall’altro. Tra un istante infinitesimale e l’altro c’è il vuoto, altrettanto infinitesimale, tanto da darci una percezione di uno scorrere continuo e fluido. [5]

E a questo momento granulare, assolutamente presente, ci riporta Valentina Marchionno nel suo contributo. La danza del corpo è qui ed ora, un gesto, un istante dopo l’altro che diventano l’azione dell’esperienza soggettivamente vissuta e consapevole. I tanti ed infinitesimali “qui ed ora” si tessono insieme a formare un nuovo tessuto, differente dai precedenti con cui andare nel mondo e presentare un nuovo Sé.

Matisse, “Icaro” 1947


In questo numero di cARTeggi il Tempo si è presentato su varie scene e in diversi abiti. Abbiamo provato ad avvicinarlo, a incontrarlo, a conoscerlo un po’ di più. Desideriamo lasciarvi un’ulteriore scena da incontrare. Una scena che viene dal continente Africano, dalla cultura burkinabè, che attraverso la propria tradizione musicale ci ricorda che tutto, assolutamente tutto, ha un suo ritmo, un suo tempo. Ĕ dentro di noi, nei passi che facciamo, nella musica delle parole che pronunciamo, nel momento giusto in cui tagliamo un albero per farne uno strumento, nel ritmo che danziamo, suoniamo e cantiamo, strettamente legato a passaggi e cicli di vita ritualizzati.

Buona visione! E grazie del vostro preziosissimo tempo, che avete trascorso in nostra compagnia.

Ricordiamo che la Rassegna Editoriale cARTeggi è semestrale e viene pubblicata nei mesi di maggio e novembre. Il numero 3 verrà pubblicato a metà maggio 2021: attendiamo i vostri prossimi contributi entro il 30 marzo 2021 alla mail carteggi@lyceum.it –  Per tutte le norme riguardanti la stesura, si rimanda alla HOME di cARTeggi.


NOTE

[1] Carlo Rovelli “L’ordine del tempo”. Adelphi, 2017

[2] Ibidem.

[3] Riportato, non citato, dall’opera teatrale “Copenaghen”, andato in scena al Piccolo teatro di Milano nell’aprile 2018

[4] Allan Shore “La regolazione degli affetti e la riparazione del Sé”. Astrolabio editore

[5] Carlo Rovelli “L’ordine del tempo”. Adelphi, 2017

Share: