cARTeggi – n. 3 – Maggio 2021

ARTICOLO
LA PRATICA DELLA DANZATERAPIA CLINICA: UN’INTRODUZIONE E I CONCETTI DI BASE
Laura Maria Pezzenati – Tecnico della Riabilitazione Psichiatrica, DanzaMovimentoTerapeuta e Supervisore APID®, Direttrice della Formazione Triennale in Danzaterapia Clinica di Lyceum Academy – Milano
Già pubblicato sulla rivista “Ar-tè” n.14

Prima, danza. Dopo, pensa. È l’ordine naturale delle cose
(Samuel Beckett)


La Danzaterapia Clinica si configura come una pratica terapeutica (θεραπεύω, dal greco, occuparsi, darsi cura di; dalla radice θερ, tenere, sostenere) che si concentra sull’osservazione (kλινικός, dal greco, allettato, infermo; ma anche, il medico al letto dell’ammalato) del corpo-cuore-mente che danza, nel qui e ora di ogni soggettiva improvvisazione; quali ne siano i limiti, e le risorse, e fuori da ogni giudizio di valore e di merito, da ogni aspettativa e intento performativo.

La Danzaterapia Clinica, all’interno di setting definiti ad hoc e resi sicuri, offre ai propri diversi fruitori, intanto, occasioni (dal latino, ob + cadĕre, cadere di fronte) dinamiche di espressione di sé; e poi, e ove possibile, di potenziali trasformazioni, tramite l’accesso alle soggettive risorse creative e vitali.


Gli elementi sui quali la pratica della Danzaterapia Clinica si basa coincidono con gli obiettivi generali che si propone. Ciò che noi Danzaterapeuti Clinici osserviamo è, infatti, il corpo-cuore-mente che danza, nello spazio, nel tempo e in relazione con sé e con gli altri; ed è sempre e ancora tutto questo (che dinamicamente accade e procede), a mostrarci la direzione di ogni nostra successiva proposta. Sono i partecipanti ai nostri setting a indicarci, attraverso i modi del loro danzare, dove si trovano, con quali ritmi e velocità stanno procedendo, vicino, lontano e in contatto con chi. Non vi è nulla di preordinato, di prestabilito, insomma, e tutto accade nel fluire di ogni sessione, momento per momento. Il corpo [1], infatti, è sempre collocato nel presente, di fronte a sé, e ad altri corpi; la sua gestualità è personale ed espressiva, e le sue azioni si sviluppano, per definizione, e in quanto vivo, nello spazio e nel tempo. Quando fermiamo la danza con uno stop, diamo vita, in quell’istante, a una nostra forma nello spazio, a una fotografia, a una statua. Il dispiegarsi del nostro danzare nel tempo, invece, si rende evidente come sequenza, come forma dinamica, come un film. E il senso e i significati comunicativi e simbolici di ogni nostro danzare si manifestano attraverso i modi con cui la sua dinamica si sviluppa, e si modifica.

Nei nostri setting, ogni utente compone la sua danza nell’eseguirla; in ogni momento, in ogni suo gesto e azione, il nostro utente improvvisa; e il suo processo creativo e il suo prodotto sono contemporanei e coincidenti. Ogni improvvisazione di chi partecipa ai nostri setting è sempre originale e indeterminata; è attività estemporanea, e ha luogo nell’hic et nunc. Ogni improvvisazione è irreversibile e, in quanto tale, richiede al Danzaterapeuta Clinico la capacità di prestare una forma dell’attenzione nuda e aperta (“fluttuante”, direbbe qualcuno[2]) a tutti i fenomeni, esterni e interni, così da poter prendere continue decisioni, che ne influenzano le successive direzioni. Utenti e terapeuta si trovano a essere, allora, sempre compresenti[3], correlati, profondamente compartecipi di uno stesso processo creativo. 

Nella musica jazz, “l’improvvisazione… è un evento improvviso, sì, preparato tuttavia da molto tempo. … l’improvvisazione è il prodotto di tutta l’esperienza fatta.…[4] E infatti, e anche nella Danzaterapia Clinica, l’improvvisazione, ogni nostro danzare, non è mai casuale, e prende piuttosto le mosse da memorie acquisite e stratificate, vi si assesta, per poi dispiegarsi, con un senso personale, e condivisibile. E’ così che i nostri fruitori danno forma, nei dinamismi del loro danzare, alle personali storie corporee, emotive e mentali; e il Danzaterapeuta Clinico, oltre a mettere in gioco questa stessa umanità (resa quanto più consapevole possibile), si avvale di una Metodologia semplice e precisa, che offre un contenitore strutturato e sicuro[5] all’intero processo espressivo e creativo di tutti i partecipanti.

La Danzaterapia Clinica lavora attraverso la costruzione e la proposta di Stimoli Immaginativi (e quindi, di contenitori metaforici e simbolici), più o meno accompagnati da Oggetti Stimolo (mediatori di qualità del corpo e/o della relazione). Ogni proposta è accompagnata da una traccia musicale congrua e adeguata (intesa, anch’essa, quindi, come Stimolo), e viene somministrata per il tramite di Parole Madre, cinetiche e non esplicativo didascaliche, che parlino direttamente al corpo, con il linguaggio del corpo, generando gesti e azioni; oltre che, quando occorrano, di nostri Gesti Madre, messi a disposizione degli utenti come ulteriore spunto, per ulteriori gesti e azioni.

Per esempio, il Danzaterapeuta Clinico potrà dire: “siamo onde”… “siamo grandi”… “piccole”… “ci solleviamo”…; somministrerà consegne verbali (coniugate al tempo presente), quindi, che accompagnerà a una traccia musicale opportunamente scelta, perché evocherà le sonorità “liquide” e “rotolanti” dell’acqua che scorre e ricorre, e varierà nel tempo e nell’intensità; come supporto al movimento e all’immaginazione, potrà far scegliere a ogni utente un tessuto morbido, un po’ elastico e avvolgente, un’onda.

Fuori da ogni giudizio, aspettativa e interpretazione, il Danzaterapeuta Clinico osserva tutto questo che accade, adottando, sia fuori, nel setting, che dentro di sé, il punto di vista qualitativo, perché formale e concretamente determinato, del come di un cosa. Ed è così che ciascun partecipante a un percorso di Danzaterapia Clinica prende e ri-prende contatto, nel qui e ora di ogni sua improvvisazione, con le sue personali risorse vitali e creative; scopre e ri-scopre parti di sé autentiche e corrispondenti, magari, più funzionali e adattive. E se, come dice Donà[6], sempre parlando di musica: “(Improvvisare) significa piuttosto confutare in rebus il primato del factum, dell’opera, e quindi del risultato. …”; anche alla Danzaterapia Clinica non interessano facta acquisiti, quanto, piuttosto, i processi, perché potenziali, abbozzati, incerti, e sempre in divenire. E poiché “la vita”, con Damasio[7], “si svolge all’interno di un confine che definisce un corpo.”, ecco che possiamo pensare alla lingua parlata dal nostro corpo-cuore-mente che danza, alla sua musicalità e al suo ritmo, come a una forma di linguaggio sui generis, la cui struttura è isomorfica a quella del nostro mondo interno[8]. Parlare questa lingua significa dialogare con quelle parti di noi che le neuroscienze chiamano memorie implicite e procedurali, non coscienti e subliminali, sensoriali, emotive e affettive[9].

Ed è proprio per il tramite delle nostre primitive e precoci (nei primi due anni di vita) esperienze estetiche (αἴσθησις, sensazione; αἰσθάνομαι, percepire coi sensi), che diamo vita alle nostre prime rappresentazioni, disposte nello spazio e nel tempo, e con le quali organizziamo il nostro mondo interno. Questo nucleo inconscio non rimosso[10] condizionerà grandemente la nostra vita affettiva, emozionale, cognitiva e creativa, da adulti.

Dunque. Tanto più de-automatizziamo, osservandole consapevolmente, le nostre procedure, tanto più siamo presenti alle cose e a ciò che ci accade, dentro e fuori, quanto più siamo in grado di gestirne e di indirizzarne gli effetti (e le cause). Quando ignoriamo il nostro corpo-cuore-mente, e ne equivochiamo i segnali (arrivando a farli diventare sintomi), infatti, perdiamo la nostra capacità di valutazione, e rischiamo di confondere ciò che ci danneggia con ciò che ci nutre. E quanto migliore diventa la nostra relazione, e il nostro dialogare, con il nostro corpo-cuore-mente integrato, tanto più facile sarà avere accesso a processi di autoregolazione efficaci, e funzionali. Per dirla con Van Der Kolk: “Agency è il termine tecnico che indica il sentimento di “avere in carico” la propria vita: sapere dove si è, sapere di avere voce in capitolo in ciò che ci accade e sapere di poter avere un’efficacia su ciò che ci sta intorno.[11]

La Danzaterapia Clinica si vuole configurare, allora, e per chiudere, come pratica di continua connessione e ri-connessione al proprio corpo-cuore-mente, e alle proprie memorie procedurali. La convinzione forte è che ogni successiva integrazione delle nostre parti interne diventi snodo cruciale, oltre che garanzia di possibili e via via più funzionali “sanità mentali”. Il corpo è, per natura, collegato alle nostre emozioni (dal latino, e-motus) e ai nostri affetti, e ci mostra i come attraverso i quali ci “muoviamo”, nella nostra vita. Poter leggere e pensare questi nostri modi, una volta trovate le parole per dirli, potrà forse indicarci direzioni più consapevoli, per arrivare, un po’ di più, a noi stessi.

E’ la consapevolezza della vita che ci ispira a vivere. La vita è pura coscienza della vita.”, dice Epstein[12], citando Agnes Martin, artista d’avanguardia del ’900.


BIBLIOGRAFIA

Bowlby J., Una base sicura, Raffaello Cortina, Milano, (1989)

Damasio, A. R, Emozione e coscienza, Adelphi, Milano, (2000)

Donà M., Filosofia della musica, Bompiani, Milano, (2006)

Epstein M., Psicoterapia senza l’Io, Astrolabio-Ubaldini, Roma, (2007)

Fechner G. T., Mallarmé S., Valéry P., Otto W. F., Filosofia della danza, Il Melangolo, Genova, (1992)

Freud S., L’Io e l’Es (1923), in Opere di Sigmund Freud, vol. IX, Boringhieri, Torino, (1977)

Galimberti U., Il corpo, Feltrinelli, Milano, (2014)

Longhin L., Mancia M., Sentieri della mente, Bollati Boringhieri, Torino, (2001)

Mancia M., Neurofisiologia, Raffaello Cortina, Milano, (1993)

Mancia M., Sentire le parole, Bollati Boringhieri, Torino, (2004)

Rizzolatti G., Sinigaglia C., So quel che fai, Raffaello Cortina, Milano, (2005)

Siegel, D. J., La mente relazionale, Raffaello Cortina, Milano, (2001)

Sparti D., Suoni inauditi, Il Mulino, Bologna, (2005)

Van Der Kolk B., Il corpo accusa il colpo, Raffaello Cortina, Milano, (2015)


NOTE

[1] Galimberti U., Il corpo, Feltrinelli, Milano, (2014)

[2] (l’analista deve) “arrendersi all’attività mentale inconscia, mettendosi in uno stato di attenzione fluttuante…”, Freud S., L’Io e l’Es (1923), in Opere di Sigmund Freud, vol. IX, Boringhieri, Torino, (1977), pag. 239

[3] Siegel, D. J., La mente relazionale, Raffaello Cortina, Milano, (2001)

[4] Sparti D., Suoni inauditi, Il Mulino, Bologna, (2005), pag. 120

[5] Bowlby J., Una base sicura, Raffaello Cortina, Milano, (1989)

[6] Donà M., Filosofia della musica, Bompiani, Milano, (2006), p.193

[7] Damasio, A. R, Emozione e coscienza, Adelphi, Milano, (2000), pag.169

[8] Mancia M., Neurofisiologia, Raffaello Cortina, Milano, (1993) ; Longhin L., Mancia M., Sentieri della mente, Bollati Boringhieri, Torino, (2001) ; Mancia M., Sentire le parole, Bollati Boringhieri, Torino, (2004)

[9] Rizzolatti G., Sinigaglia C., So quel che fai, Raffaello Cortina, Milano, (2005)

[10] Mancia M., Sentire le parole, Bollati Boringhieri, Torino, (2004)

[11] Van Der Kolk B., Il corpo accusa il colpo, Raffaello Cortina, Milano, (2015), pag.110

[12] Epstein M., Psicoterapia senza l’Io, Astrolabio-Ubaldini, Roma, (2007), pag. 185

 

Share: