cARTeggi – n. 5 – Giugno 2022


ARTICOLO
RI-TROVARSI: DANZATERAPIA CLINICA E RECUPERO DELLA DIMENSIONE VITALE CON PERSONE AFFETTE DA AIDS
di Greta Marchesi, Tecnico della riabilitazione psichiatrica e Danzaterapeuta Clinica

La Danzaterapia Clinica è uno strumento prezioso di lavoro sia sul piano corporeo che su quello psichico, in cui è assente il giudizio e la persona ha la possibilità di portare alla luce autenticamente parti di sé.

Ciò che è emerso nella mia esperienza di Danzaterapia Clinica condotta con persone affette da HIV/AIDS, è come la pratica, per le sue caratteristiche metodologiche, sia stata in grado di offrire agli utenti la possibilità di ritrovare alcune parti di sé, dimenticate o addirittura mai conosciute, e si sia posta come occasione di recupero della propria dimensione vitale.


VIVERE CON L’AIDS: IL TEMPO, LA RELAZIONE, IL CORPO

L’AIDS è una malattia complessa, che comporta significative implicazioni sul piano fisico, emotivo, ma, a causa dei pregiudizi ancora oggi molto diffusi, anche relazionali e sociali.

Al netto delle dovute differenze soggettive, sicuramente l’ingresso del virus HIV nella vita di una persona determina, quantomeno in una fase iniziale, modifiche nella sua percezione del tempo, della relazione e del corpo.

Innanzitutto, il tempo della persona con HIV/AIDS è scandito da alcuni appuntamenti, che la accompagneranno per tutto il corso della vita, come l’assunzione quotidiana delle terapie e i controlli con l’infettivologo, impegni improrogabili che segnano il tempo della persona, lo strutturano e, costantemente, ricordano la propria condizione di malattia.

Nonostante oggi le aspettative di vita siano pari al resto della popolazione, spesso la diagnosi viene percepita come una sentenza di morte, con la perdita di ogni prospettiva: che ne sarà del mio lavoro, della mia relazione, dei miei progetti, della mia intera vita?

Questo può tradursi in una condizione di immobilità, il tempo diventa “condensato” nell’istante presente, un qui e ora ben diverso dal concetto mindfulness, che ruota intorno ad uno stare nell’ hic et nunc in modo consapevole, con mente e corpo.

Lo stare di cui si parla è svuotato di senso, di significato e, quindi, di valore.

Pur trovandoci a quarant’anni dalla scoperta di questa malattia, ancora oggi la parola AIDS porta con sé un immaginario collettivo ricco di pregiudizi morali e sociali ed un vissuto caratterizzato da sentimenti di colpa e di vergogna: ancora oggi è tragicamente attuale parlare di stigma.

Questo ovviamente determina importanti ripercussioni sulla possibilità di essere in relazione con l’altro.

Il malato di AIDS è additato come colpevole di colpe che non ha commesso, costretto a convivere con la propria condizione, celandola agli occhi dell’altro. Tra i fattori che concorrono allo stigma, vi è il fatto che spesso l’HIV colpisce quelle “comunità” che la società ha già discriminato a priori (tossicodipendenti, prostitute, persone senza fissa dimora, migranti, ecc..).

Nell’analisi dei vissuti corporei di una persona con HIV/AIDS, è interessante citare Galimberti, che nel suo saggio Il Corpo scrive “allora il corpo del malato, da soggetto delle sedute sciamaniche e delle pratiche prescientifiche, è diventato supporto di quella nuova realtà, la malattia che il sapere medico ha prodotto come oggetto specifico della sua applicazione. Per questo lo sguardo medico non incontra il malato ma la sua malattia, e nel suo corpo non legge una biografia, ma una patologia, dove la soggettività del paziente scompare dietro l’oggettività di segni sintomatici che non rinviano a un ambiente, a un modo di vivere, a una serie di abitudini contratte, ma un quadro clinico, dove le differenze individuali, che si ripercuotono nell’evoluzione della malattia, scompaiono in quella grammatica di sintomi con cui il medico classifica le entità morbose”.[1]

Quello che si può incontrare è dunque un corpo omologato, limitato alla costellazione sintomatologica, annullato nella sua individualità e soggettività. Vengono limate le differenze che hanno a che fare con la persona, che in quel corpo risiede e ne è inscindibilmente parte, per dare risalto al sintomo, alle mancanze, ai disturbi. Il corpo in un certo senso è reso oggetto, privato della sua dimensione soggettiva e “umana”.

La malattia, soprattutto agli inizi del percorso di cura, quando la prognosi è ancora in attesa di definizione, può portare ad una sensazione di perdita del controllo sul proprio corpo: al suo interno un nemico invisibile si muove ed agisce e la persona deve, in qualche modo, costruire delle “regole di convivenza” con questo ospite indesiderato.

Può accadere anche che il corpo assuma le caratteristiche di un elemento ostile, in cui la persona e il virus si trovano costretti a coesistere, uno affianco all’altro, uno dentro l’altro. E assumere così una estraneità, tanto da non riuscire a percepirlo più come prima, a non percepirlo più come proprio.


RI – TROVARSI: DANZATERAPIA CLINICA E RECUPERO DELLA DIMENSIONE VITALE CON PERSONE AFFETTE DA AIDS

Parlando di recupero della dimensione vitale attraverso la Danzaterapia Clinica, si possono riconoscere diverse sfumature, che però sono tutte strettamente interconnesse, di ritrovamento e di reintegrazione di parti di sé.

Innanzitutto, parlare al corpo, con il corpo, significa dialogare con quelle parti di noi che le neuroscienze chiamano memorie implicite e procedurali; queste hanno a che fare con esperienze non coscienti né dichiarabili a parole; sono subliminali, sensoriali, emotive ed affettive.

La funzione terapeutica della Danzaterapia Clinica sta nel dare la possibilità di essere e di sentirsi vivi e nel dare forma ai propri significati interni; sta nel dare l’opportunità di fare una narrazione di sé attraverso il corpo e l’immagine della propria storia, del significato di sé.

È stato come se il nostro percorso avesse portato avanti a gran voce il messaggio “ricordati che devi vivere”, in antitesi con il memento mori, che anzi è costantemente rimarcato per le persone che convivono con HIV/AIDS.

È necessario dunque ricordarsi di essere persone, di essere vivi, di avere una storia e una vita, costituita, per definizione, di momenti belli e brutti: per ciascuno di noi, è comunque la nostra storia.

Immaginando dunque la vita di una persona come un filo, che si distende tridimensionalmente seguendo la propria, personale, direzione, possiamo rappresentare queste persone come dei nodi, come fili arrotolati e aggrovigliati su sé stessi. Questa immagine simbolica può essere utilizzata anche per il corpo: annodato su se stesso e, di conseguenza, statico, pesante, bidimensionale.

Da un lato, la Danzaterapia Clinica ha permesso, portando a riconnettersi con le proprie memorie inscritte nel corpo, di ritrovare momenti belli, di riagganciarsi a parti della propria storia senza bisogno della parola;

dall’altro lato, il fatto di lavorare sulle risorse e sulle potenzialità del corpo, guardando al limite come a una possibilità, diventa un modo per riconoscersi di poter essere, di essere ancora, in modo diverso.

Sentire la possibilità di un cambiamento equivale a sentire di avere una prospettiva, una longitudinalità.

Anche a livello corporeo, esplorando le proprie opportunità di movimento, diventa possibile riconoscere di avere una tridimensionalità: il corpo può espandersi e contrarsi, allungarsi e rimpicciolirsi, ruotare e piegarsi, può muoversi nello spazio, in tutti i livelli e in tutte le dimensioni. Il corpo può.

Il corpo delle persone che convivono con HIV/AIDS è il bersaglio del rifiuto da parte dell’altro, della paura, della vergogna; è un corpo che non viene toccato, se non per pratiche mediche, che spaventa perché è “infetto”, è il corpo col contorno viola di vecchie pubblicità, da evitare e verso cui provare repulsione.

Se una persona con AIDS viene costantemente bombardata da messaggi, più o meno impliciti, che sottolineano le sue limitazioni (presunte o effettive) o che danno per certo l’esito nefasto della malattia, questa potrebbe reagire adeguandosi a questa immagine che se ne ha, mostrando così carenze anche in quegli ambiti dove invece ci sono capacità residue, che non si sforza nemmeno più di mostrare.

Di conseguenza, il mondo esterno rinforza la convinzione dell’effettiva presenza di queste mancanze, generando così un circolo vizioso che si autoalimenta e che porterà il malato verso un isolamento ulteriore e un decadimento precoce.

“La dimensione del gruppo diventa il contesto ideale nel quale vivere un’esperienza di genuina manifestazione di sé attraverso la danza e il movimento espressivo, in una dimensione di libertà e di non giudizio. Il corpo parla attraverso la comunicazione non verbale, che è una dimensione relazionale universale attraverso la quale tutti sono raggiungibili, tutti possono mettersi in gioco, tutti possono riscoprire parti di sé stessi dimenticate o sopite, tutti possono creare.”[2]

Nello specifico, la Danzaterapia Clinica favorisce la riscoperta del proprio corpo andando oltre il vissuto del corpo malato, del suo dolore, dei suoi limiti, delle sue mancanze.

Nella Danzaterapia Clinica, cambia il modo di guardare l’altro, e il limite diventa risorsa: c’è uno stereotipo che cade e un corpo che emerge e che si scopre.

Infine, un aspetto che ritengo molto interessante è quello del piacere corporeo: il corpo di chi ha questa patologia è medicalizzato, analizzato e esaminato, è la sede del dolore, della mancanza, è lo specchio dei cambiamenti e dei segni della malattia.

È un corpo da cui spesso è meglio estraniarsi, come a non sentirlo più come proprio.

A proposito del piacere corporeo, è importante analizzare gli effetti della Danzaterapia Clinica anche sul piano fisiologico: il movimento del corpo determina infatti modificazioni biochimiche (come il rilascio di dopamina, la sintesi e secrezione di endorfine ed encefaline), da cui scaturisce una sensazione di piacere.

La Danzaterapia Clinica offre una possibilità per stare bene con il proprio corpo, per risentirne il bello, per trovare (o scoprire) il piacere di questo dialogo corporeo profondo, capace di esplorazione delle proprie risorse all’interno dei limiti.

Offre occasioni di manifestazione intima del proprio essere, di accettazione del limite, di espressione autentica di sé verso di sé e verso l’altro, di cambiamento.


BIBLIOGRAFIA
Bellia V., Se la cura è una danza. La metodologia espressivo-relazionale nella danzaterapia, FrancoAngeli, 2007
Bonino S., Mille fili mi legano qui. Vivere la malattia, Editori Laterza, 2006
Demetrio D., Raccontarsi. L’autobiografia come cura di sé, Raffaello Cortina Editore, 1996
Di Virgilio M., AIDS: malattia, prevenzione, assistenza, FrancoAngeli, 2000
Galimberti U., Il corpo, Feltrinelli, 1987
Galimberti U., Dizionario di psicologia, Utet Libreria, 2006
Saccorotti C., Tracce di percorsi clinici. Corpo e danzamovimentoterapia, FrancoAngeli, 2019
Turrisi C., HIV/AIDS 2.0. Profezia di un’evoluzione possibile, FrancoAngeli, 2015

SITOGRAFIA
www.danzaterapiamariafux.it
www.tlon.it
www.msdmanuals.com
www.salute.gov.it
www.lila.it
www.poloinformativohiv.info

NOTE
[1]  Il Corpo, Umberto Galimberti, pp. 54,55
[2] 7 http://www.danzaterapie.it/la_danzaterapia.htm