cARTeggi – n. 6 – Dicembre 2022


ARTICOLO
UNA COPIA ORIGINALE. RIFLESSIONI SUL PROCESSO DELLA COPIA DI IMMAGINI COME RISORSA IN ARTETERAPIA
di Marika Parini, Arteterepeuta Clinica Lyceum Academy

Abstract

Questo articolo propone alcune riflessioni sul processo della copia di immagini in arteterapia, interrogandosi sui possibili significati di questo processo e sulla sua utilità. Le possibili funzioni della copia sono esposte accostandosi ad alcuni processi evolutivi, quali il contenimento, il rispecchiamento e la sintonizzazione emotiva, e al concetto di proiezione.

 “Non so cosa disegnare, non mi viene in mente niente”. Dentro l’atelier di arteterapia possono comparire queste frasi, segno non di una reale aridità inventiva, ma di un’immagine interna che, forse, non è ancora pronta a prendere forma. Come rispondere? Un’opportunità può essere l’introduzione di immagini nell’atelier, da usare nei collages ma anche a cui ispirarsi. Questo articolo riflette in particolare su cosa avviene quando il paziente decide di copiare un’immagine; esporrò alcune delle possibili funzioni simboliche di questo gesto, tratte da alcune considerazioni nate dal mio lavoro in ambito psichiatrico.

Se la copia può apparire, superficialmente, un processo di riproduzione tecnico, impersonale, nel contesto dell’atelier essa può invece divenire parte integrante del processo creativo, e fornire uno strumento utile a sostenere l’espressione individuale. Attraverso la riproduzione di un’immagine altrui, la versione copiata può esprimere molto del suo autore, nelle somiglianze e differenze, con una modalità forse più sottile rispetto all’immagine direttamente creata, ma comunque valida. Copiare le immagini è un processo; in quanto tale, non è statico, ma muta continuamente, assumendo infinite variazioni di significato, a seconda dell’autore, del gruppo, dell’immagine, del momento…

Il primo step di questo processo è scegliere cosa copiare, e quindi guardare attentamente; la copia implica un’osservazione approfondita, l’immagine non è scelta in modo casuale, anche se le motivazioni non sempre sono esplicite o consapevoli. Nel contesto arteterapeutico, appare quasi scontato ribadire l’enorme portata emotiva e simbolica di un’immagine; essa non è solo ciò che vediamo, ma comprende le più svariate istanze. Per riassumere questa complessità, è possibile riferirsi alle teorie della Gestalt, e in particolare al concetto di percezione che descrivono (Arnheim, 1999). Essa, componendosi secondo principi ordinatori globali, diventa molto più che la somma “algebrica” dell’analisi dei singoli elementi; l’intero è qualcosa di più della somma delle parti, pur comprendendole.

Questa concezione può essere molto utile nell’analisi della copia: copiare non significa infatti solamente riprodurre le varie parti dell’originale, ma è molto di più. La copia coglie gli aspetti strutturali, sommandoli alle caratteristiche proprie e alle esperienze di chi sta copiando, e alla situazione contingente in cui avviene. Lo sguardo che osserva, e che prenderà corpo nella copia, è attivo e potente, già parte del processo creativo, avvicinandosi ad una concezione gestaltica: “una maniera veramente creativa di afferrare la realtà: immaginativa, inventiva, sagace e bella a un tempo” (Arnheim, 1999, p. 26).

Lo sguardo è lo strumento percettivo attraverso cui il paziente inizia ad entrare in relazione con l’immagine originale; questa diventa una presenza viva, attiva, influente nel processo creativo. È in questa relazione che la copia può oltrepassare una riproduzione meramente “tecnica” e assumere significati emotivi e simbolici.

Una possibile funzione della copia è quella di porsi davanti al bianco smarrimento del foglio. Essa si colloca, per usare termini lacaniani, come uno schermo davanti alla Cosa; ovvero ad un vuoto semantico, un qualcosa di non rappresentabile, sempre presente in noi, ma mai osservabile in modo diretto (Ruina,2014). Nell’ambito psichiatrico, la persona si trova a rapportarsi senza difese con quel vuoto; l’immagine può intervenire come un filtro protettivo, una struttura di linee (Immagine 1) che permette di accostarsi al vuoto interno senza esserne travolti.

L’immagine come filtro davanti al vuoto; copia di Giorgia (nome di fantasia) da un disegno di Picasso

Accostandosi ad alcuni processi evolutivi è possibile descrivere ulteriori significati della copia; in particolare, utilizzerò i concetti descritti da Donald Winnicott del contenimento, rispecchiamento e spazio transizionale. L’immagine, proponendo un’alternativa al vuoto, offre una struttura ben definita, in cui è possibile abitare, e svolge una funzione di contenimento.

Riferendosi ad un approccio psicodinamico, il contenimento nasce dalla percezione dei propri confini fisici, quando si è tenuti nelle braccia della madre. Questo contatto si traduce, a livello psichico, nel “sentire” i propri confini, percependosi come un’unità coesa e distinta. I confini vengono progressivamente interiorizzati, dando vita a una psiche integrata e solida, che, nella vita adulta, può sperimentare anche stati di non integrazione. In quei momenti di rilassamento fiducioso è possibile l’espressione e la sopravvivenza del Vero Sé, ovvero ciò che permette al sé di agire creativamente nel mondo, e di sentirsi realmente “vivo”. È facile intuire come sia auspicabile che il Vero Sé del paziente possa emergere nell’atelier, che deve quindi fornire uno spazio sufficientemente sicuro perché ciò sia possibile. In questo processo, il contenimento riveste un ruolo fondamentale, incarnato nel complesso del setting fisico ed emotivo.

La copia dell’immagine può, in questa prospettiva, fornire un ulteriore contenimento. L’immagine originale contiene l’immaginario interno del paziente: in essa, egli vede qualcosa presente dentro di sé, ma soprattutto, l’immagine dà una forma, con dei confini precisi, a questo qualcosa. Essa traccia dei limiti, un territorio preciso di linee e colori entro cui muoversi. Nell’ambito psichiatrico, dove non sempre l’integrazione della psiche è completamente presente, l’immagine può quindi costituire un’ulteriore cornice, abbastanza solida da resistere ai contenuti interni, talvolta minacciosi e disgreganti, che il paziente vi riversa. Quando il paziente ha interiorizzato a sufficienza i confini sicuri offerti dal setting, l’immagine di partenza può anche essere abbandonata a favore di forme nuove.

Un’altra possibile funzione della copia è di rispecchiare i contenuti che il paziente vuole esprimere. Nel processo evolutivo, il rispecchiamento nasce dal vedersi riflessi nello sguardo del caregiver, che contribuisce alla costruzione della propria immagine interna. Questo riflesso può essere ricercato dal paziente nell’immagine da copiare. Nell’originale, egli può vedere rispecchiata una parte di Sé, un’immagine positiva o negativa a seconda degli sguardi ricevuti. Forse l’immagine rispecchia il modo in cui il paziente si è percepito “visto”: ad esempio, pensiamo a un paziente che sceglie un’immagine con una figura isolata in uno spazio vuoto che la sovrasta, oppure a una composizione con tanti elementi in armonia. Osservando i cambiamenti che il paziente mette in atto nella sua versione dell’immagine originale, si possono intuire, forse, quali qualità dello sguardo materno il paziente ha interiorizzato e “rimanda” sull’immagine.

L’immagine può anche riflettere, restituendole, parti di Sé che il paziente non vedeva da tempo. Essa ha infatti il pregio di essere costante, permettendo di fermare un’istantanea; il paziente ha la possibilità di vedere il proprio “riflesso” più volte, ri-trovandosi nell’immagine, oppure di trovarsi rispecchiato in immagini diverse, che restituiscono nuove angolazioni. Questo rispecchiamento può costituire un elemento centrale della copia, che può essere quindi intesa come un racconto, o una riscrittura, di una parte di Sé (Immagine 2). Il proprio riflesso, forse distorto nel rispecchiamento originale, può trovare una possibilità di riparazione in una nuova immagine.

Riscrivere il proprio riflesso. Copia di Flavia (nome di fantasia) da un disegno di Picasso.

Una caratteristica fondamentale della copia in atelier è che non è mai perfettamente uguale all’originale; questa discrepanza può essere accostata al processo evolutivo della frustrazione ottimale. Durante la crescita, la risposta del caregiver diventa sempre meno aderente ai bisogni del bambino, creando una frustrazione necessaria affinché il bambino impari a comprendere la distinzione tra la realtà esterna, che non è sotto il suo controllo, e ciò che invece avviene all’interno della sua mente. Analogamente, l’immagine da copiare fornisce sì una forma, che però non corrisponde perfettamente al contenuto interno; è qui che la copia può intervenire come una correzione, creando una versione più aderente alla propria espressione personale, che sopperisca agli “errori” dell’originale. Come nella fase evolutiva, la frustrazione deve essere ottimale: una certa tensione è funzionale, ma non deve mai risultare insopportabile. Ad esempio, immagini troppo complesse potrebbero portare a un eccessivo giudizio negativo sulle proprie capacità; è compito dell’arteterapeuta invece utilizzare questa discrepanza per differenziare e valorizzare il lavoro dell’utente, e renderlo autonomo e svincolato dall’originale.

La discrepanza tra realtà e immagine interna ci conduce in uno spazio transizionale, descritto da Winnicott come “l’area intermedia […] che è consentita al bambino tra la creatività primaria e la percezione oggettiva basata sulla prova di realtà” (Winnicott, 2006, p. 34). Esso non cessa completamente di esistere con l’infanzia, e nell’età adulta continua ad essere presente come “un’area intermedia di esperienza, non completamente mentale, ma neanche del tutto oggettiva” (Concato, 2006, p. 181), che provvede a dare sollievo a quella tensione continua provata dovendo continuamente rapportare la propria realtà interna con quella esterna. In questa prospettiva la creazione artistica è transizionale, unendo idea e realtà: i materiali danno forma alla fantasia, dando vita a un oggetto altro da sé e perciò non completamente aderente all’idea, che sarà necessario adattare ai tempi e al materiale. La copia in particolare può essere vista come un oggetto transizionale: essa non è “reale”, completamente aderente all’originale, ma contiene anche elementi interni al paziente, resi manifesti tramite le espressioni pittoriche.

Un altro concetto che può fornire un utile paragone in questa lettura della copia è la sintonizzazione emotiva descritta da Daniel Stern (2000). Essa nasce dalla capacità di tradurre in diverse modalità sensoriali le stesse qualità dell’esperienza; nella fase evolutiva, quando il bambino comprende la distinzione tra sé e l’altro, compare la condivisione dei propri stati d’animo che egli esprime e che gli vengono rimandati, con modalità differenti, dal caregiver. Si crea quindi una sintonizzazione emotiva imperfetta, che traduce lo stesso contenuto in un altro linguaggio. La sintonizzazione non coincide in modo esatto, ma, proprio per questa trasposizione, rimanda a ciò che sta “dietro” il comportamento, agli stati interni condivisi da entrambi. La sintonizzazione emotiva non si limita infatti alla riproduzione dei comportamenti, ma serve a costruire un significato nuovo, specifico e condiviso dell’esperienza stessa.

Possiamo trasporre questo processo emotivo nella copia, nel modo in cui la riproduzione del paziente può condividere uno stato interno con l’immagine scelta. Esso può essere espresso “sotto forma di qualcosa che viene percepito all’esterno, ma che è tradotto in esperienza interiore” (Stern, 2000, p. 168), in uno spazio transizionale tra dentro e fuori. Attraverso materiali e forme diverse, il paziente può scegliere di riprodurre proprio il contenuto che ha colto nell’immagine, sintonizzandosi con esso ma “facendolo suo” (Immagine 3), e traducendolo nelle proprie modalità espressive. Questo aspetto è molto rilevante, perché è nella riproduzione che il contenuto può essere rimodellato, conferendogli un nuovo significato. Questo processo può anche avvenire in senso contrario; vedere come l’autore dell’immagine originale ha espresso un certo stato d’animo, può essere un modo per il paziente di sentire che la propria esperienza può, ed è stata, condivisa da qualcun altro, e che può essere “interpretata” in modo differente. Questa diversa prospettiva può agire a un livello simbolico molto profondo, attivando le risorse interne nel paziente.

Quale contenuto è visto nell’immagine originale? Copia di Flavia (nome di fantasia) da una fotografia di Jon Cornforth

La copia può quindi rivelarsi uno strumento utile a sostenere il processo creativo personale, anche andando a sostenere delle difese del paziente. Nell’atelier di arteterapia, i pazienti possono agire diversi meccanismi di difesa, più o meno funzionali, che si manifestano nei suoi comportamenti, ma anche nel rapporto con l’opera prodotta, tramite il gesto artistico e la sua valenza simbolica. In particolare nel lavoro in ambito psichiatrico, le difese fanno parte della modalità di funzionamento di una persona, e costituiscono, in quel momento, l’unica modalità possibile di espressione; esse quindi sono indispensabili e può essere funzionale sostenerle, almeno finché non saranno più necessarie. Nel caso specifico della copia, possono essere agiti svariati comportamenti difensivi; mi limiterò a esporre quello della proiezione.

La proiezione è un meccanismo di difesa in cui “il soggetto reagisce a eccitazioni interne spiacevoli da cui non può fuggire, negandole come proprie e attribuendole a cose o persone esterne” (Galimberti, 2018, p. 947). In altre parole, consiste nello spostamento dei propri contenuti interni, che possono essere impulsi o emozioni, all’ esterno, ascrivendoli ad un’altra persona o ad un oggetto.

La proiezione di contenuti personali in un’immagine è parte integrante di qualsiasi processo creativo; creare qualcosa implica, necessariamente, porre nell’opera qualcosa di sé. Nella copia, questo qualcosa può essere visto (proiettato) nell’immagine originale, che lo incarna fuori da sé e che poi viene investito emotivamente. Viceversa, forse, è proprio il contenuto proiettato a “scegliere”; a seconda dei tratti che il paziente vuole espellere, in quel momento, verrà scelta l’immagine più adatta a impersonarli, per poterli collocare fuori da sé. Il contenuto proiettato può essere o meno riconosciuto coscientemente dall’autore; questa consapevolezza rimane secondaria al processo creativo. Anche se l’utente non ne è consapevole, spesso proprio la copia prodotta può narrare con molta chiarezza quali contenuti sono stati collocati nell’immagine.

Attraverso la copia, il contenuto proiettato ha la possibilità di prendere una forma concreta; i materiali danno forma, creando un oggetto che è specificatamente altro da sé. L’atteggiamento con cui l’utente si relaziona con l’elaborato finito può raccontare il suo modo di approcciarsi ai contenuti “espulsi”. Vi può essere un marcato rifiuto, un senso di non-appartenenza; l’elaborato può essere sminuito o addirittura distrutto, quasi a esorcizzare quella parte di sé. Al contrario, il processo creativo può anche aiutare a compiere un processo opposto di reintegrazione. Sul foglio, quel contenuto può essere modificato a piacimento e, anche grazie allo sguardo del gruppo, può assumere un significato diverso, e diventare più tollerabile. Il rapporto con l’immagine quindi si evolve, e può superare la proiezione; l’immagine che il paziente crea, la propria immagine personale, è diversa e autentica.

La copia rivela quindi avere una molteplicità di possibili significati; la potenza simbolica ed emotiva dell’immagine originale può dare inizio a un processo complesso, che può rappresentare uno strumento utile nel contesto dell’atelier. Le possibili risorse della copia sono attivabili all’interno di un contesto più ampio, in cui il contorno del gruppo e il sostegno dell’arteterapeuta contribuiscono a realizzare un processo creativo positivo e funzionale, dove il processo della copia è un mezzo e non un fine.


Bibliografia

Arnheim, R. (1954), Arte e percezione visiva, Giangiacomo Feltrinelli Editore, Milano 1999.

Concato, G. (2006), Manuale di psicologia dinamica, AlefBet, Firenze 2006.

Galimberti, U. (2018), Nuovo dizionario di psicologia. Psichiatria, psicoanalisi, neuroscienze, Giangiacomo Feltrinelli Editore, Milano 2018.

Ruina, F. (2014). Lacan e l’estetica del vuoto. Aperture (30), 1-8, 2014.

Stern, D. N. (1987). Il mondo interpersonale del bambino, Bollati Boringhieri, Torino 2000.

Winnicott, D. W. (1971). Gioco e realtà, Armando Editore, Roma 2006.

 

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