SOMMARIO
cARTeggi – n. 7 – Giugno 2023

EDITORIALE

ORIGINI
di Sara Ornaghi, Psicologa-Psicoterapeuta, Arteterapeuta clinica

Con questo numero monografico cARTeggi rende omaggio ad una delle pioniere dell’arteterapia, Elizabeth Stone, diretta allieva di Edith Kramer, da cui ha origine la metodologia dell’arteterapia clinica e da cui sono nate prima la scuola di Torino, il Porto-ADEG, e successivamente Risvegli e poi Lyceum, a Milano.

È un tornare alle origini, a quel momento in cui qualcosa comincia a levarsi, sorgere, nascere e prendere forma (origine dal latino origo e prima dal verbo oriri = levarsi, sorgere).

Nell’immaginario è qualcosa che da uno substrato non organizzato, comincia ad integrarsi, assumere una sua struttura e comincia ad alzarsi, ad erigersi, separarsi, individuarsi e differenziarsi, per assumere una sua forma e una sua identità e portare la sua voce. Richiama metaforicamente le tappe dello sviluppo dell’identità psichica di un individuo, che viene alla luce e nelle relazioni col caregiver e col mondo, da essere confuso si individua e si innalza, al giusto tempo nella posizione eretta, affermando “Io sono!” e muovendosi nel mondo.

Si scorge questo processo nelle parole di Elizabeth Stone, che nel racconto della sua vita ed esperienza professionale ci racconta di come alcuni dei preziosi semi che hanno dato origine all’Arteterapia, come la intendiamo e la viviamo oggi siano stati gettati in quella primigenia relazione con Edith Kramer, dai loro dialoghi e dal continuo studio e costanti riflessioni sulla clinica e le ricerche nel campo delle arti e della psicologia.

I dialoghi si sono nel corso della storia ampliati, con il contributo di numerose personalità, che prima allieve/i e poi docenti, hanno diffuso e contribuito all’espansione di un metodo, che diviene sostegno e cura.

Nelle parole dell’intervista si ripercorre un tratto di storia, fatto di contesti sociali, situazioni culturali e storiche che possono apparirci lontani, ma è inevitabile cogliere l’ardore con cui si è proceduto in questa strada sino ad arrivare ai giorni nostri.

Le origini … che hanno la stessa radice del termine oriente … il luogo da cui sorge il sole.

Per cui non mi dilungherò oltre, lasciando spazio all’intervista di Valentina Bugli ad Elizabeth Stone. Saranno le parole stesse ad evocare sensazioni, sentimenti ed immagini, ricordandoci da dove tutto nasce.

ARTICOLI

Elizabeth, storia viva
Intervista e traduzione a cura di Valentina Bugli (Danzaterapeuta Clinica)

Quando mi hanno proposto di intervistare Elizabeth Stone ho provato emozioni contrastanti… Da un lato mi sono sentita molto onorata di potere incontrare una figura che per il mondo dell’arteterapia in Italia e nel mondo fosse di così radicale importanza. D’altro canto, devo dire che una parte del mio cervello è andata in tilt… Sarò in grado di dialogare con una figura così di spicco di questo mondo? Vorrà condividere con me, che nemmeno ne faccio parte, il suo vissuto, la sua storia, le sue opinioni?

Affrontare i “mostri sacri” di una disciplina è come immergere le mani nei colori della storia, arrivare a toccare le radici di quello che è un percorso di cui oggi si possono vedere le diramazioni, i frutti, nuovi germogli che crescono. Soprattutto quando parliamo di discipline relativamente recenti, quale appunto l’arteterapia (così come la danzaterapia), incontrare questo tipo di persone, professionisti che hanno contribuito a plasmarne i lineamenti, è emozionante. Sembra di toccare l’inarrivabile, di potere sfiorare il cielo, quando normalmente è solo l’orizzonte che riusciamo a vedere, e da lontano.

In realtà dialogare con Elizabeth è stato tanto semplice quanto disarmante: Elizabeth si è lasciata incontrare, nessun fronzolo o formalità, da pari a pari. Anche in un dialogo a distanza quale è stato il nostro, la vicinanza che ho provato con lei è stata immediata. È quindi ancora più grande il piacere che ho nel potere tradurre questa intervista, in cui lei stessa esplora e racconta la sua traiettoria professionale e di vita. La Stone ci porta nei movimenti sociali della New York degli anni Settanta, nel fermento del pensiero psicanalitico americano degli anni Ottanta, nelle avanguardie connesse alle artiterapie dell’Italia degli anni Novanta, attraversando le conoscenze e i traguardi degli anni Duemila, per arrivare ai bisogni e alle speranze del mondo di oggi. Elizabeth Stone è storia viva, un colore complesso, caldo e completo capace di arrivare con le sue parole e le sue immagini a tutte e tutti noi, per portarci spunti, visioni, e ricordarci il mistero che l’arte può portare con sé quando è messa al servizio dell’esplorazione del nostro mondo interiore e di quello altrui.

Elizabeth è storia viva e al contempo un lago calmo in cui specchiarsi per interrogarci, tutte e tutte, sull’oggi: chi siamo? Dove siamo? Quale direzione vogliamo prendere per fare in modo che le artiterapie rispecchino il nostro cammino di vita, le nostre passioni, i nostri valori? L’impegno di Elizabeth Stone, lungo tutta una vita, è d’esempio per tutte e tutti, arteterapeuti e non, per pensarci come attrici e attori di un processo di cambiamento e trasformazione che continua ad avvenire, grazie al movimento della vita stessa, dentro e fuori di noi.


Come hai scoperto di essere un’arteterapeuta? Qual è stato il tuo percorso? Qual è il tuo approccio nell’arteterapia, provenendo dalla psicanalisi?

Anche solo leggere le domande che mi hai posto, Valentina, mi ha permesso di fare un’esperienza emozionante: sono temi che mi riportano alle radici, a come sono diventata arteterapeuta, a tantissime memorie del mio viaggio nell’arteterapia negli ultimi 50 anni!

Da bambina sono sempre stata toccata dall’arte, ma è da quando ho cominciato gli studi universitari che dipingere è diventato parte della mia ricerca di significato nella vita. Diventare grandi nella metà degli anni ’60 era inebriante, un momento incredibile per essere giovani. La pratica dell’arte era per me strettamente connessa alla letteratura, alla filosofia, al teatro e all’agire politico. Oltre alla mia creatività personale come pittrice, mi sono avvicinata a quelle correnti di pensiero sociale e politico che supportavano la rabbia per la guerra in Vietnam, le lotte per i diritti delle donne, per un’uguaglianza razziale, sociale ed economica. Tutto questo negli Stati Uniti, il paese da dove provengo.

Dopo avere conseguito il Bachelor nel 1967 presso la New York University, ho realizzato che non avrei potuto semplicemente correre a Parigi per vivere in una soffitta a dipingere notte e dì! Mi sarei dovuta trovare un lavoro, visto che non ero pronta a iscrivermi a nessuna scuola di specializzazione. Proprio in quel periodo il Dipartimento dei Servizi Sociali della città di New York assumeva giovani laureati per informare famiglie e persone svantaggiate delle possibilità di accesso al credito e agli aiuti sociali. Ho fatto domande e sono stata presa: questo lavoro si è trasformato in un’enorme opportunità per aprirmi gli occhi!

La profondità della povertà e la grande sfiducia tra le persone è diventata uno stimolo per attivarmi nell’offrire aiuto. Anche se seguire burocrazie e pratiche amministrative era per me un incubo, ho capito che mi piaceva tantissimo aiutare la gente. Questa chiarezza è stata fondamentale in ogni scelta che ho compiuto per il mio futuro lavorativo. Volevo essere d’aiuto e di supporto alla gente. Il mio impegno in campo artistico sarebbe rimasto parallelo a questa strada, perché ancora non immaginavo come integrarlo con il mio lavoro (l’arteterapia era quasi sconosciuta all’epoca).

Ancora una volta grazie alla città di New York, con grande sorpresa sono stata assunta come insegnante di scuola materna dal Dipartimento dei Parchi, divertimenti e affari culturali. Non essendo un’insegnante qualificata, mi sono attivata e ho raccolto informazioni da chiunque avesse esperienza come insegnante per bambini e bambine in età prescolare! All’epoca, avere qualifiche precise era meno importante di quanto sia oggi e molte persone come me si sono formate “sul campo”! Certo, era inizialmente strano e sconvolgente avere così poca esperienza, e potevo contare sulla presenza di due genitori che ogni giorno mi aiutavano in classe, con questi 27 bambini. Mentre loro osservavano me e mi sostenevano nel lavoro, io osservavo loro e imparavo dalle loro interazioni con i propri figli! Alla fine ho imparato ad amare il mio ruolo e i bambini e le bambine a cui insegnavo… Introdurre attività creative nella loro quotidianità era per me una meravigliosa opportunità per sostenere lo sviluppo dei bimbi e delle bimbe e ho cominciato proprio qui a restare affascinata dai loro disegni. Mi impressionava come esprimessero le loro fantasie vive attraverso l’arte. Ho seguito qualche corso sullo sviluppo infantile per approfondire le mie conoscenze.

Durante l’estate avevo il compito di organizzare e condurre laboratori estivi rivolti a bambini più grandi, ospitati in case d’accoglienza e hotel perché le famiglie avevano perso la propria casa in incendi o altre calamità naturali. Nei giorni precedenti al laboratorio, dovevo formare gli operatori e programmare le attività quotidiane. Questa è stata la mia prima esperienza come supervisore. Non immaginavo allora che la supervisione sarebbe diventata parte importante del mio lavoro come terapeuta. In quel periodo mi sono iscritta a un master in “Interrelated Arts” presso la New York University, per continuare a dare linfa alla mia vita artistica. Un mio compagno mi raccontò di una professione chiamata “arteterapia”. Sono stata da subito colpita, sapevo d’istinto che era qualcosa che poteva fare per me! Mio padre era psicanalista, la psicologia era quindi già nelle mie ossa, era parte di me. Sapevo però che, se avessi voluto seguire questa direzione, avrei dovuto trovare la mia strada, che non era quella della parola e dell’interpretazione.

Trovare dei corsi non era facile. Alcune università in altri stati avevano diplomi e lauree in arteterapia, ma io ero già a metà del mio programma di master; cambiare in quel momento non mi sembrò pratico. Trovai un corso di arteterapia presso la scuola di musica Turtle Bay, condotto da Vera Zilzer. Ci sedevamo in cerchio sul pavimento, cosa che al tempo sembrava una modalità radicalmente nuova di imparare (era pur sempre il 1973!). Dopo una minima spolverata di istruzioni didattiche, ci immergevamo nell’illustrare la nostra personale esperienza di vita attraverso l’utilizzo di materiali artistici. Gli studi artistici che avevo fatto in precedenza erano focalizzati sugli elementi formali dell’arte, dell’espressione artistica. Non avevo mai immaginato che si potesse disegnare in un modo così intimo e personale. Mi sono quindi imbarcata alla ricerca del mio percorso per diventare arteterapeuta.

Come hai incontrato Edith Kramer?

Il semestre successivo, Edith Kramer presentò un corso di arteterapia presso la NYU Graduate School, e il mio counselor mi permise di inserirlo nel piano di studi. Edith mi ha presto chiesto di lavorare con lei all’Unità di Psichiatria Infantile presso il Jacobi Hospital nel Bronx. Al suo fianco sono fiorita. La cosa che mi sorprese di più è che mi trattava come una pari. Non le piaceva molto assumere il ruolo del supervisore, quindi di sua iniziativa spesso mi coinvolgeva e ci trovavamo immerse in discussioni infinite sulle nostre note di osservazione, proprio come due colleghe! Le mie riflessioni erano guidate dall’esperienza fatta nella scuola dell’infanzia, per cui inserivo lo spettro della “normalità” nell’interpretazione di comportamenti diagnosticati come psicotici e borderline. Mi interessava la modalità di lavoro di Edith che includeva solo i materiali artistici di base. Osservavo che con pittura, argilla e materiali da disegno, le persone riuscivano a esprimersi praticamente su qualsiasi tema. Questi materiali promuovevano la possibilità di affidarsi alla propria immaginazione per fare emergere l’oggetto artistico, pur avendo a supporto del lavoro un’intera enciclopedia di immagini e fotografie di animali. Anche io ho seguito poi questo approccio, che mi accompagna fino a ora. Quando Edith ha lasciato questo incarico, lo ha poi affidato a me.

Nello stesso periodo, avevo cominciato a seguire tutti i corsi di arteterapia che riuscivo a trovare a New York, e a partecipare a conferenze e lezioni di psicoanalisi per aumentare le mie conoscenze. Studiare arteterapia Gestaltica con Elaine Rapp è stato particolarmente formativo per il mio sviluppo professionale, perché affiancare l’enfasi di Elaine sul “qui e ora” all’approccio psicanalitico più classico di Edith, mi permise di coltivare la mia apertura mentale. Scoprire questa complementarietà mi ha permesso di integrare le due visioni in una prospettiva personale.

Negli anni successivi, Edith attivò un programma di Master in arteterapia a New York e mi chiese di diventare una dei supervisori. Benché lusingata, mi sentivo molto vicino agli studenti, forse solo qualche passetto più avanti! In ogni caso questa prima esperienza mi permise da un lato di scoprire di amare il processo dialogico della supervisione – che permetteva agli studenti e alle studentesse di aprire le proprie menti e scoprire nuovi modi per imparare; dall’altro, mi concesse di ampliare il mio sguardo a gruppi di studenti e studentesse, un target molto differente da quello incontrato nella mia esperienza clinica precedente. Le visite in loco, dove potevo osservare e partecipare alle sessioni organizzate dai vari gruppi di studenti, mi permisero di familiarizzare con i bisogni di ciascun gruppo, garantendomi di lavorare al meglio a seconda delle diverse necessità. Anche una singola visita arricchiva le mie capacità cliniche, e mi permetteva di migliorare come supervisore.

Durante il primo semestre di supervisione, ho concluso il master che stavo seguendo. La mia tesi riguardava un argomento che negli anni ho continuato ad approfondire, e che continua a ispirarmi ora come allora: l’immagine del corpo nell’arte dei bambini e delle bambine. Durante i miei studi, avevo frequentato qualche corso di danzaterapia. Questo mi ha dato ispirazione per provare a comparare i gesti e i movimenti descritti nelle opere d’arte dei bimbi ai loro propri movimenti corporei. Mi sono accorta subito che, nonostante i disegni appartenessero sia a bambini della scuola materna sia a bambini ospedalizzati affetti da gravi disturbi, vi era un tema comune, l’immagine corporea! L’immagine corporea fungeva da denominatore comune per tutte e tutti nella costruzione di un sé degno di interesse. A quel tempo non vi era molta letteratura su questi temi. Mi sono messa a studiare i primi pionieri della Danza e Movimento Terapia, quali Laban, Bartenieff, Chase e Schoop e ho fatto mie alcune delle loro proposte metodologiche. Ho incontrato Judith Kestenberg e l’ho osservata nel lavoro con genitori e bimbi. Parallelamente mi sono immersa nella letteratura psicoanalitica sullo sviluppo infantile, con autori quali Spitz, Mahler, Pine e Bergman, Fraiberg e D.W. Winnicott.

In quel periodo stavo lavorando in un centro per la salute mentale in New Jersey, con bambini, adolescenti e adulti. Dal momento che mi trovavo a essere la terapeuta principale, sapevo di dovere espandere le mie conoscenze teoriche e di dover capire come adattare il mio approccio alla clinica. Stavo frequentando la “New York School for Psychoanalytic Psychotherapy and Psychoanalysis”, avevo cominciato il mio personale cammino di analisi, stavo approfondendo la mia pratica come supervisore: ho cominciato quindi ad applicare le mie conoscenze in merito alla Teoria delle relazioni oggettuali alla pratica clinica in arteterapia.

Grazie alla grande quantità di concetti psicanalitici che Edith Kramer ha applicato e integrato alla pratica dell’arteterapia, ho iniziato anche io in prima persona a leggere i miei apprendimenti come un cammino in cui potevo estenderli a pratiche complesse, sia con adulti sia con bambini e ragazzi. Dal momento che molti dei concetti psicoanalitici allora in uso venivano continuamente aggiornati, la mia pratica come arteterapeuta cresceva in altrettante direzioni. Prendiamo per esempio, l’integrazione del controtransfert come fondamentale supporto per acquisire informazioni sul paziente, e non solo su sé stessi come terapeuti: questo concetto per Edith era ancora inaccessibile. Quando il centro di salute mentale cambiò amministrazione, ho ridotto le mie attività fino a ottenere un part time, e ho iniziato il mio percorso come clinica privata. A questo punto della storia mi sono imbattuta in un amore imprevisto… Che mi ha portato qui in Europa, in Francia!


Elizabeth e l’Italia: è stato amore a prima vista? Come sei arrivata a giocare un ruolo così importante nel nostro paese?

Nel 1984 il mio matrimonio mi ha portato a Grenoble, Francia, dove mio marito ed io abbiamo dato vita alla nostra famiglia. Dal momento che il francese era una lingua relativamente nuova per me, ho pensato che la mia carriera come arteterapeuta fosse finita. Non immaginavo di praticare in una lingua che conoscevo così poco. In realtà un nuovo capitolo della mia vita è iniziato lì, subito dopo avere ricevuto una felice telefonata da parte di Raffaella Bortino, che mi invitava a insegnare in inglese in un seminario estivo a Torino, in Italia. Raffaella aveva passato due anni negli Stati Uniti ed era diventata molto amica di Laurie Wilson, all’epoca direttrice del programma di arteterapia alla New York University. Anche Raffaella si era appassionata all’arteterapia e voleva capire se in Italia ci fosse abbastanza interesse per attivare un programma di formazione dedicato.

Nell’estate del 1985 invitò Edith e me a tenere dei corsi. Si è scoperto così che c’era un grande interesse tra gli studenti e le studentesse, e che i tempi erano maturi per avviare una nuova scuola. E quindi, a Torino è nata la Scuola ADEG-Il Porto, grazie alla collaborazione con la New York University e il suo Department of Special Programs. Raffaella ha costruito una programmazione invernale affascinante, piena di corsi affini e vicini alle artiterapie, come filosofia, psicologia… Il mio ruolo era quello di adattare il programma di arteterapia della New York University alla realtà italiana e completarlo rispetto al resto della programmazione. Rimanemmo molto colpite che gli studenti e le studentesse venissero da tutta Italia per frequentare le classi e partecipare alle supervisioni.

In effetti era uno dei primi programmi di arteterapia in Italia. Io ero responsabile delle esperienze di supervisione e di qualche corso estivo. In pratica passavo uno o due weekend al mese a fare supervisione a gruppi di studenti molto entusiasti. Ho avuto la fortuna di avere Isabella Negri (Bibi) come principale interprete, che mi ha aiutato a tradurre i miei interventi di supervisione all’incirca per 20 anni. La supervisione ha bisogno, tra le varie competenze comunicative, di grande delicatezza e rispetto, e Bibi e io abbiamo sempre lavorato perfettamente allineate! Certo, uno dei miei rimpianti è proprio quello di non avere imparato la lingua italiana abbastanza per potere esprimermi al meglio, anche se dopo qualche anno ho cominciato a capire tutto ciò che veniva condiviso. Per tutti quegli anni, e ogni volta che sono venuta ad insegnare in Italia a partire da quei primi esordi, scendere dal treno su suolo italiano mi dava un tuffo al cuore.

Il mio amore per l’Italia è stato a prima vista, ed è continuato e cresciuto fino a oggi. La bellezza del paesaggio nei dintorni della città di Torino e la sua magnificenza, sono solo lo sfondo di una cultura calda, sensibile e creativa a cui potevo avvicinarmi grazie a studenti e studentesse.

Molti docenti e formatori di Lyceum Academy sono stati tuoi studenti e studentesse… Qual è la visione che hai trasmesso loro?

Mi sono sentita sempre fortunata per avere avuto l’opportunità unica di fare supervisione a questi studenti nei loro anni di formazione. In gran parte dei programmi, come anche alla New York University, i supervisori cambiano di anno in anno, anche da semestre a semestre. Questo sistema ha il merito di permettere agli studenti e alle studentesse di conoscere stili diversi di supervisione. D’altro canto ciò che è avvenuto nella nostra formazione, ovvero partecipare e dare forma in profondità all’evoluzione di studenti e studentesse nel tempo, ha permesso una particolare profondità clinica e una solidità dal punto di vista relazionale, peculiare di questo programma.

Durante il primo anno di supervisione, cercavo di parlare agli studenti con un linguaggio il più possibile “laico”, mantenendo le distanze da termini tecnici o clinici. Il primo anno avvicina gli studenti e le studentesse a sperimentare direttamente le molte sfaccettature dell’arteterapia: a mio parere i termini tecnici non permetterebbero loro di attivare la componente “reale” dell’esperienza di apprendimento.

Invece di sposare il gergo clinico, volevo che capissero cosa stavano osservando e che non si irrigidissero nel percorso di conoscenza, già abbastanza spinoso per tutto il materiale emotivo che sarebbe poi emerso. Non volevo che impersonificassero la parte dell’erudito, per apparire competenti. Avevo visto e letto troppi casi clinici in cui, a un’introduzione teoretica sofisticata, seguiva una descrizione del caso povera e poco approfondita. Quando il materiale per lo studio di caso non combacia con la teoria esposta, so per certo che la teoria non è stata digerita del tutto. Sentivo che quando gli studenti e le studentesse imparavano le basi della teoria senza inutili formalismi, capivano con più facilità e costruivano degli studi di caso più coerenti. Riuscivano meglio a intendere e definire la propria azione terapeutica. Introducevo termini clinici solo quando ero sicura che non avrebbero più creato confusione, verso la fine del primo anno o all’inizio del secondo.

Era importante per me che gli studenti e le studentesse si prendessero il giusto tempo per riflettere sul proprio lavoro clinico, un tempo lento, cauto, necessario anche per riflettere sugli elaborati artistici dei pazienti (così come sui propri). Appendevamo gli elaborati artistici ai muri insieme, come gruppo. Chiedevo spesso agli studenti: “Cosa vedete?” Il primo passo era sedersi in silenzio e prendere in esame una serie di immagini, per capire come le qualità sensoriali dei materiali erano organizzate sul foglio, per lasciare arrivare le emozioni che le immagini ci facevano provare, senza giudizio, senza preconcetti; al contempo ascoltando la narrazione terapeutica, e tenendo in considerazione la storia del paziente. Solo a quel punto, cercavamo di dare un senso generale alla storia. Solo a quel punto poteva emergere il significato che l’elaborato artistico poteva avere per il paziente, così come l’interazione qualitativa tra il paziente e i materiali artistici, il bisogno del paziente (o la sua mancanza) di chiedere aiuto al tirocinante per portare a termine la propria immagine. Tutti questi elementi servivano per costruire una fotografia dinamica, per illuminare la traiettoria del paziente in terapia. Questa ampia modalità di lettura, offriva un insight rispetto al funzionamento del paziente che sorgeva solo se i tirocinanti attivavano le proprie risorse interne come terapeuti, risorse in evoluzione e in costruzione. A volte gli studenti e le studentesse davano seguito a questa lettura condivisa, creando un’opera artistica che, se da un lato poteva rappresentare un affondo rispetto alla loro comprensione dell’esperienza del paziente, dall’altro poteva offrire ulteriore insight rispetto alla relazione con il paziente stesso.

Qual è il tuo approccio nel lavoro di supervisione? Quali le finalità principali?

Il mio scopo qual era? Volevo comunicare agli studenti e alle studentesse che un approccio psicoanalitico moderno poteva essere combinato in maniera coerente e solida con l’arteterapia. In tutti questi anni, la mia base teoretica si è evoluta verso quell’insieme denominato psicologia del Sè. Il campo della psicoanalisi si è andato modificando e ampliando attraverso diverse propaggini. La mia curiosità negli ultimi tempi mi ha portato ad avvicinarmi maggiormente all’approccio relazionale. Spero di essere riuscita a impartire il modello teorico che ritengo intrinseco dell’arteterapia, ovvero il rimanere aperti a una varietà di approcci. Ho abbracciato la visione di Edith Kramer di “Arte come terapia” soprattutto per alcune tipologie di pazienti, ma con il tempo mi sono leggermente spostata dalla sua dottrina, per abbracciare la nozione di “arteterapia” o, come si dice anche, di arte e terapia come azioni ineluttabilmente interconnesse. L’enfasi sul primo o sul secondo approccio per me dipende soprattutto dalla tipologia di paziente e dal livello di competenza dell’arteterapeuta.

Per esempio, nel 2015 Judith Rubin stava aggiornando il suo libro Approaches to Art Therapy (Rubin, 2016), e mi chiese di rivedere un contributo di Edith del 1987. Edith considerava il ruolo della sublimazione come l’essenza del suo approccio all’arteterapia. Nella mia breve introduzione, ho spiegato la traiettoria della “sublimazione” negli ultimi cinquant’anni di storia del mondo psicanalitico. Ho rivisitato il termine e l’ho riadattato ai nostri tempi. Essenzialmente, invece di intendere la “sublimazione” come il risultato di una trasformazione agita dall’arteterapeuta alla guida del laboratorio per bambini con gravi patologie, in grado di attivare percorsi artistici miracolosi, ho proposto di intenderla come l’input che l’arteterapeuta offriva e che, in collaborazione terapeutica con il bambino, permetteva a quest’ultimo di attivare la propria creatività in modi trasformativi, ai quali prima del percorso non aveva accesso proprio a causa delle fatiche connesse al funzionamento del suo mondo interiore. Durante la metà degli anni Novanta, sono stata chiamata a fare supervisione per alcuni tirocinanti in un programma formativo a Losanna, in Svizzera. Questo lavoro è diventato il completamento di quanto già svolgevo a Torino.

Elizabeth, sei stata tra le fondatrici di APIART in Italia… Che tipo di motivazioni sottintendevano questo progetto a quei tempi?

Alla fine degli anni Novanta, diversi arteterapeuti si misero insieme per fondare quella che negli anni è poi diventata APIART, l’Associazione Nazionale Italiana delle Arti Terapie. Con Mimma Della Cagnoletta, Maria Belfiore, Donatella Mondino della scuola Art Therapy, abbiamo messo insieme le forze a servizio di una visione in cui tutti gli arteterapeuti in Italia potessero usufruire di un’associazione solida, che segnasse gli standard da adottare e con cui identificarsi in quanto professionisti e professioniste. Abbiamo organizzato un momento di confronto con terapeuti e psichiatri interessati, provenienti da tutta Italia, quali M. Peciccia, S. Donnari, A. Tamino e altri. Il nostro piccolo nucleo piemontese/lombardo si batté perché fossero adottati standard formativi elevati. Alla fine è stato raggiunto un compromesso e nel 1999 a Roma sono stati firmati i documenti che hanno segnato la nascita di APIART.

Sempre in quel periodo, a Torino, Raffaella [Bortino, N.d.T.] decise di uscire dalla scuola. Anticipando l’imminente sconvolgimento che ne sarebbe seguito, ci trovammo a dovere fare delle scelte. Dopo molte discussioni su come avremmo continuato a mantenere attiva la formazione per gli studenti e studentesse che stavano concludendo il proprio ciclo, con un gruppo di ex studenti e studenti in corso decidemmo di ricreare una nuova scuola. Sapevamo che sarebbe servito un grande impegno lavorativo e di immaginazione per capire come sopravvivere e ricostruire da zero. Con grande entusiasmo e molta passione, abbiamo attivato l’Associazione Edith Kramer Onlus (che oggi non esiste più). Abbiamo ampliato l’International Summer Collaboration in Art Therapy rivolta a studenti e studentesse di tutto il mondo. Un gruppo rinnovato di docenti cominciò a insegnare in quel periodo: Judith Rubin, Shirley Riley, Katherine Williams, Cathy Malchiodi, Martha Haeseler… Una sinergia meravigliosa scorreva e permetteva agli studenti di confrontarsi su nuove idee e punti di vista, anche perché arrivavano a conoscersi molto a fondo e a creare forti legami. Era per noi un grande successo riuscire a creare questa atmosfera durante le due settimane di corso estivo, che ha funzionato molto bene, soprattutto prima dell’arrivo massiccio di internet.

Il disastro dell’11 settembre ha poi disincentivato i viaggi internazionali e tristemente abbiamo dovuto interrompere il programma estivo. Anche le spese erano elevate e, nonostante le speranze condivise di ripresa, l’ammanco finanziario era troppo elevato. Con grande disappunto abbiamo dovuto accettare la sua chiusura. Abbiamo tirato un sospiro di sollievo quando Attilia Cossio ed Elvira Impegnoso, hanno proposto che gli studenti e le studentesse potessero continuare il percorso formativo presso la scuola Risvegli a Milano. Qualche anno più tardi, Margherita Gandini prese poi le redini di una nuova scuola, che è oggi Lyceum. È stato per me un piacere vedere molti degli ex studenti e studentesse diventare capisaldi della nostra professione in Italia e continuare ad approfondire il cammino avviato molti anni prima nelle esperienze narrate anche qui, in questa intervista.

Penso sia un’ottima scelta il fatto che Lyceum abbia posizionato l’arte al centro del percorso formativo in arteterapia. Questo approccio non solo segue i miei insegnamenti, ma ha le sue radici dirette in ciò che Edith Kramer ci ha insegnato. Negli anni ho cercato di comunicare l’importanza di certi confini etici all’interno dei percorsi formativi, per esempio il fatto che l’arteterapeuta non dovrebbe andare oltre al proprio livello di formazione, sfociando nel lavoro psicologico. Quando capitano occasioni di questo tipo abbiamo visto quanto sia facile passare questi confini. Rispettare sempre il proprio ingaggio etico provvede una base di credibilità nel terapeuta e nel programma formativo stesso.

Ho spesso sottolineato l’importanza di una supervisione continua, che offre la possibilità di stare in una relazione in cui essere completamente onesti, senza la paura di rivelare le proprie emozioni di inadeguatezza, i propri errori o le proprie reazioni emotive ai nostri pazienti. La supervisione migliora e fortifica le competenze, apre a diversi orizzonti e prepara per nuove sfide.

È importante riuscire a portare a galla spontaneamente questioni complesse legate a situazioni cliniche che ti stanno succedendo. Approfondire alcune situazioni attraverso vignette o immagini scelte, offre l’opportunità di estendere la comprensione clinica a tutto il gruppo che esamina un caso insieme. Unica avvertenza, esaminare lo studio di caso è utile solo quando si può visionare l’elaborato artistico del paziente. Mi è capitato di dovere interrompere lo studio di un caso clinico perché l’elaborato artistico non era presente. Non avere accesso all’elaborato artistico distorce la nostra capacità di comprendere lo svolgimento del caso clinico. Avere come unica possibilità quella di immaginare l’opera, troppo spesso porta a distorsioni o deviazioni. Gli studenti che hanno studiato con me hanno compreso questo concetto appieno, e spero siano riusciti a tener fede a questo impegno. Sono consapevole che altri programmi formativi non danno così tanta importanza a questo aspetto.

Veloce è meglio? Cosa pensi delle molteplici formazioni brevi nate ultimamente e che promettono di formare arteterapeuti in pochissimo tempo?

Quando penso a quelle scuole che propongono “viaggi brevi” – magari di pochi weekend – per diventare arteterapeuti, o percorsi esclusivamente online, senza laboratori in cui approfondire la conoscenza dei materiali, mi accorgo come questi programmi abbiano cambiato la comunità legata all’arteterapia. Questi programmi troppo spesso sottovalutano la potenza del processo creativo, fornendo un inadeguato numero di ore di formazione, tirocini e supervisione. Rischiano di produrre risultati clinici pericolosi, nonostante il livello generale dei professionisti resti eccellente e fornisca un servizio adeguato. Sfortunatamente, questo tipo di programmi si basa sulla naivité di persone poco informate in cerca di un modo per incastrare una formazione in arteterapia nelle loro vite frenetiche. Gli studenti spesso iniziano questo tipo di formazioni senza sapere che viene loro offerta una soluzione di qualità inferiore. I professionisti arteterapeuti hanno bisogno di essere formati in maniera completa così da assicurare percorsi di cura adeguati ai bisogni dei pazienti.

Quali sono le esperienze professionali che stai portando avanti oggi?

Negli ultimi 20 anni, il mio impegno principale è stato verso il lavoro clinico come arteterapeuta e psicoanalista. Ho cominciato a praticare a Grenoble, dopo avere lasciato i miei incarichi di Torino e Losanna. Non avrei mai pensato che ci sarebbe stato nella mia vita un incarico a cui mi sarei dedicata di più di quanto abbia fatto per il programma formativo a Torino. La ripresa della pratica clinica ha invece aperto un nuovo e meraviglioso capitolo nella mia vita, capace di riaccendere la passione verso il mio lavoro. Quando ho aperto il mio studio di Grenoble, ero appena stata assunta dall’ospedale locale per lavorare con pazienti con cancro in fase terminale. Il lavoro con questo tipo di pazienti mi ha obbligato a utilizzare nuove lenti per leggere l’esperienza del trauma, adottando chiavi di lettura oggi all’avanguardia per la salute mentale. Nella pratica di anni con i bambini, adolescenti e adulti, la cosa più gratificante per me è stata quella di avere l’opportunità di lavorare con persone dai background più diversi, visto che Grenoble negli anni ha attirato – verso le sue istituzioni scientifiche, industriali ed educative – persone da tutto il mondo.

Il mio ultimo incarico formativo è stato con l’Ecole de Psychologues Praticiens dell’Università Cattolica di Lione, in cui ho insegnato per sette anni. Dal momento che il corso era in inglese, sono riuscita ad avere la libertà di inserire una vasta gamma di argomenti. Sono rimasta molto sorpresa e compiaciuta dal fatto che in media un terzo degli studenti erano interessati ad avere più informazioni sull’arteterapia ed eventualmente a intraprendere gli studi per diventare professionisti. Il loro interesse era evidente e rende significativo quanto l’arteterapia sia importante e sia considerata un’esperienza imprescindibile una volta che la sua efficacia viene compresa.

Quale pensi possa essere la funzione sociale dell’arteterapia e delle terapie che utilizzando il medium artistico oggi? Perché sono importanti e come possiamo metterci, come professionisti, a servizio della società?

Un’ultima parola sull’uso dell’arteterapia nella società di oggi. Pensiamo a tutti i traumi che le persone vivono a causa delle guerre (in Ucraina ma anche le altre nel mondo), gli effetti del cambiamento climatico che portano ad eventi catastrofici e conseguente perdita delle proprie terre e case… Gli e le arteterapeute possono offrire – a bambini, ragazzi e adulti – opportunità per esprimere attraverso l’arte i vissuti di queste esperienze. Per esempio, l’elaborazione attraverso l’arteterapia per i bambini e le bambine che persero i genitori nel disastro dell’11 settembre fu preziosa ed essenziale. Gli e le arteterapeute che collaboravano con le Ong poterono lavorare con le famiglie e i caregiver nei casi in cui le persone furono dislocate. Anche se molte di queste esperienze furono condotte su base volontaria, la loro importanza non può essere sottovalutata.

Infine, dovrei menzionare il mio coinvolgimento con quella che oggi si chiama la European Federation of Art Therapy (EFAT). La sua storia inizia undici anni fa: Judy Rubin si mise in contatto con Paola Luzzatto e Maria Delia per condurre un lavoro di rete durante un incontro di ECArTE (European Consortium for Arts Therapies Education). Sono stata da subito coinvolta e ho accompagnato la crescita di questo percorso fino alla sua formalizzazione nel 2018. EFAT sostiene la collaborazione di arteterapeuti di quasi tutto il mondo. Un gruppo di lavoro interno a EFAT ha condotto diverse sessioni di lavoro online durante la pandemia. Il mio coinvolgimento è stato in particolare all’interno del Comitato Etico, che ho guidato fino alla stesura di due vademecum sull’etica e deontologia del nostro lavoro. Sono stata a servizio anche del Comitato Redazionale (ARC), che si occupa di visionare le nuove domande di adesione alla Federazione.

Per chiudere questo lungo racconto, la mia gratitudine va a tutti gli studenti e le studentesse delle scuole di Torino e Milano, e ai loro pazienti, che mi hanno concesso l’opportunità di condividere anni di apprendimento e crescita condivisa. Sono sicura di essere fiorita quanto loro grazie alla nostra incredibile collaborazione.


Bibliografia

  • Kramer, E. (1987). Sublimation and art therapy.  In J.A. Rubin (Ed.) Approaches to art therapy (2nd ed., 2001, pp. 28-39). New York: Brunner-Routledge.
  • Kramer, E. (2000). Art as therapy: Collected papers (L.A. Gerity, Ed.). London: Jessica Kingsley.
  • Rubin, J. A. (2016). Approaches to Art Therapy: Theory and Technique, London & New York: Taylor and Francis, pps. 101 – 105

 

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