cARTeggi – n. 2 – Novembre 2020

Articolo

GERMOGLI DI CONFINE
di Elena Gianella, Arteterapeuta Clinica, Laureata in lettere moderne

Questo breve contributo vuole essere una riflessione sul finire del tempo, sul passaggio, sul privilegio dell’essere testimone, e sulla bellezza del mistero.
Il testo prende l’avvio dalla narrazione di un brevissimo percorso di arteterapia della paziente di un Hospice. Il secondo lavoro, in particolare, dei due soli realizzati, offre profondi spunti di riflessione.

Dove, chi
Ho conosciuto Carmen nell’autunno del 2019. Era ricoverata nell’Hospice presso il quale lavoravo, per una patologia oncologica allo stadio terminale. Di lei sapevo che aveva lavorato come infermiera, non si era mai sposata né aveva avuto figli, aveva accudito i genitori fino a pochi anni prima, quando entrambi erano morti. Poco dopo essere andata in pensione le era stato diagnosticato un tumore, per il quale era stata sottoposta a diverse cure. Il dato forse più rilevante, a questo proposito, è che, sulla cartella clinica, lessi della negazione totale che Carmen aveva strutturato rispetto ai motivi del proprio ricovero. Nella sua stanza, in cui mi ero affacciata in un paio di occasioni, avevo intravisto uno dei fratelli e la cognata accanto al letto, ma una delle prime cose che mi disse, dopo che mi fui finalmente presentata, fu che troppe visite la infastidivano e che preferiva dedicarsi ad altro.

Pensai, come penso ora, che volesse preservare i suoi cari e se stessa dal discorso intorno alla morte, o che volesse ricavare uno spazio piccolo, per sé, dopo aver passato la vita intera ad occuparsi degli altri.

L’incontro
Come ero solita fare presentandomi ai nuovi pazienti, raccontai brevemente a Carmen chi fossi e cosa portassi con me nella grande borsa che avevo lasciato accanto al letto, chiusa. Nonostante la stanchezza ed un certo rallentamento, probabilmente dovuto alla terapia farmacologica, Carmen accettò di provare ad usare i materiali, senza particolare entusiasmo ma neppure senza ritrosia. Come prima proposta, le mostrai un album con un gran numero di immagini fotografiche, invitandola a sceglierne una che le piacesse, che le desse serenità o che le ricordasse qualcosa. Carmen sfogliò con calma l’album e scelse l’immagine di un balcone fiorito; le chiesi se volesse aggiungere a questa foto qualche parola o frase, per renderla più personale. Le spiegai che, accostando le parole scelte, poteva persino comporre un testo poetico.

Come si vede dalla foto scattata al lavoro artistico, una volta completato ed appeso davanti al letto, Carmen preferì inserire le parole qua e là, sull’immagine, senza tentare di articolare un discorso che fosse maggiormente leggibile. Non si soffermò particolarmente sull’importanza che pur sembravano avere, per lei, i singoli elementi: ritorna, noto, la parola regalo, e ricordo che Carmen la legò idealmente al senso di pace e tranquillità che la foto le trasmetteva e che si può scorgere anche in quell’idea di casa come nido, rifugio, luogo sicuro.

La presenza reale di Carmen in quell’elaborato, tuttavia, credo si possa ritrovare soprattutto nella coccinella ritagliata e incollata in basso, sui fiori, così da essere quasi confusa con lo sfondo. Con un sorriso, la donna mi fece notare che in quell’angolo nessuno l’avrebbe vista e che avrebbe potuto stare in pace. Al termine di questo primo incontro, portai con me il pensiero che i successivi dovessero essere animati da un attento equilibrio fra necessità di espressione e bisogno di pace e di quiete. Avevo, di fatto, l’impressione che la donna volesse trovare una dimensione intima in cui lasciare una traccia di sé e che la mia presenza dovesse essere calda e vitale ma al contempo discreta, quasi silenziosa, come quella di un piccolo fiore giallo.

Può sembrare superflua questa mia insistita osservazione, poiché è sempre indispensabile, con chiunque, trovare la giusta distanza e la giusta intensità comunicativa: tuttavia, in questa specifica situazione, sentivo che Carmen stava facendo a me, e a chiunque potesse ascoltarla, la medesima richiesta: sospendere le domande, le aspettative, i discorsi (dis-currĕre: correre qua e là, disperdersi correndo) di chi voleva intrattenerla, o tenerle compagnia.

L’albero morto
La settimana successiva, con mia grande sorpresa, Carmen volle provare a disegnare.

C’era, sul tavolino di fronte alla finestra della stanza, un vaso con un bonsai, completamente privo di foglie, apparentemente secco. La cognata, che stava terminando la sua visita mentre io preparavo i materiali, disse che le pareva il caso di portarlo via, perché era ormai morto. Forse, osservo ora, quel piccolo albero rappresentava con ineludibile chiarezza la condizione di Carmen, ne era l’immagine simbolica, per questo difficile da “sostenere” per chi le voleva bene.

Ricordo con chiarezza che Carmen rispose che l’albero non era morto: era solo timido e presto avrebbe messo nuove foglie. Quando la cognata uscì, la donna decise di disegnare proprio l’albero.

Le operazioni preliminari non furono brevi, poiché Carmen era allettata ed il vaso piuttosto pesante, ma dopo qualche minuto riuscimmo a trovare una buona sistemazione per lei e una collocazione accettabile per il bonsai.

Per un tempo che mi parve davvero lungo, Carmen si dedicò a riprodurre il vaso di terracotta: mentre disegnava e cancellava, cercando di rappresentare fedelmente il rilievo decorativo, pensavo a quanta attenzione stesse impiegando nel delineare il contenitore, il supporto, la “casa-nido” che accoglieva e nutriva le radici dell’albero; pensai anche che quel gesto di cura così ripetuto e lento potesse ritardare il momento in cui Carmen avrebbe dovuto delineare il tronco nodoso e i rami secchi. Con forza, insomma, avvertivo che sul foglio prendeva forma un’autorappresentazione, un ritratto del tempo ultimo che Carmen stava vivendo.

 In questo senso, non aveva alcuna importanza che lei fosse o meno consapevole di ciò che la sua mano stava facendo.

Terminato di disegnare il vaso, cominciò con maggiore difficoltà a disegnare il bonsai, dapprima cercando di farne una fedele riproduzione, poi cedendo alla stanchezza e semplificando le linee.

Quando ormai pensavo che il disegno fosse terminato, Carmen cominciò a disegnare una fogliolina, poi un’altra e un’altra ancora, senza dire nulla, accogliendo con un sorriso la mia meraviglia.

L’interruzione
Il fluire sospeso del tempo di quell’incontro venne bruscamente interrotto dall’ingresso di una volontaria, che aveva il compito di raccogliere le preferenze per la cena.

Se questa fosse la narrazione di una fiaba, direi ora che la signora, che entrò chiedendo se si preferisse il purè o i piselli, si assunse il ruolo di antagonista: guardando con curiosità sul foglio, con un tono che voleva forse essere leggero, disse a Carmen che stava imbrogliando e che le foglie, sul bonsai vero, non c’erano.

Di nuovo, a distanza di un anno, mi chiedo come fosse possibile non cogliere la sacralità del momento, la bellezza incantatrice del gesto coraggioso e spontaneo a cui avevo assistito.

Quelle parole, pensai, potevano essere come cesoie per il filo di grafite che aveva guidato la mano di Carmen. Fortunatamente, quasi con noncuranza, lei continuò a disegnare.

Poco dopo, l’incontro terminò, con l’accordo reciproco di riprendere il disegno per colorarlo, in seguito.

Il mistero
La settimana dopo, al mio arrivo in Hospice, fui però avvisata che Carmen non era più contattabile.

Salii nella sua camera, per accomiatarmi da lei, e vi trovai la cognata, a luci spente, impegnata in una telefonata. La salutai con un gesto e mi accostai al letto, mentre la donna usciva per continuare la conversazione in corridoio. Senza la certezza di essere udita, dissi dolcemente a Carmen che avevo portato il disegno, che non l’avremmo terminato ma che l’avrei appoggiato sul vetro della finestra, dietro alla pianta di bonsai. Così feci. Mi allontanai di qualche passo, per guardare l’immagine nella sua completezza – l’albero, il disegno dell’albero e Carmen – quando sentii i peli rizzarsi sulle braccia.

Accesi la luce, mi avvicinai di nuovo. Nella parte alta del piccolo tronco, sotto i rami secchi, c’era un germoglio.

Ricordo che lo guardai a lungo, mi girai poi verso la porta, che inquadrava la cognata di Carmen in controluce, le feci cenno di entrare e guardare.

Dalla sua espressione esterrefatta potei capire che stavamo vedendo la stessa cosa.

Con un’urgenza su cui non mi feci domande, presi il vaso, lo portai davanti al viso di Carmen, la ri-chiamai per nome, dicendole cosa era successo. Lei aprì gli occhi,  per un istante, ma non saprei dire cosa poteva vedere. Però, ricordo, piegò le labbra in un fugace sorriso.

Dopo pochi giorni, Carmen morì.


Osservazioni sul senso

La realtà di cui facciamo esperienza, e la narrazione che ne consegue, sono la risultante di un amalgama complessa di fattori, fra i quali la selezione degli elementi  a cui prestiamo attenzione e l’interpretazione che ne diamo. Nel caso specifico, mi sento in dovere di aggiungere a quanto ho scritto che durante il secondo incontro con Carmen feci portare in camera un umidificatore, poiché l’aria era davvero molto secca. Il grado di umidità dell’aria può essere sufficiente a spiegare la (apparente) morte della pianta e la sua ripresa? Probabilmente sì. Ma non è quello che io ho vissuto.

La magia non è superstizione, la magia è la natura del mondo. Il mondo non è logico né razionale, è magico, ed esiste un legame stretto fra tutto ciò che accade. […] il tempo non è lineare, gli effetti a volte si producono prima delle cause, alcune cose sono inspiegabili”.1

L’inspiegabile di cui ho fatto esperienza è proprio la corrispondenza sincronica2 fra il gesto artistico ed una trasformazione della realtà. In primo luogo, le condizioni stesse in cui quel gesto si è compiuto lo rendono potente: una donna, ai limiti estremi del proprio tempo, sembra trasferire nell’oggetto che crea la propria vitalità, la propria speranza di vita. Al di là di ogni lettura, credo che quell’imbroglio di Carmen fosse in sé un atto di grandiosa bellezza3, a cui ho partecipato con gratitudine e meraviglia e che tale sarebbe rimasto se anche quella pianta non avesse dato forma fisica alla trasformazione operata sul foglio. Il gesto di disegnare le foglie prima che le foglie spuntassero ha reso testimonianza, io credo, ad un contatto profondo, per quanto forse non consapevole, con la verità della morte che Carmen avrebbe di lì a poco fronteggiato e con la ciclicità naturale ed ineludibile in cui è inserito ogni essere vivente. Il richiamo alla bellezza del gesto sarebbe quindi di per sé sufficiente a riconoscere un senso a quelle foglie, spuntate dopo essere state annunciate nel disegno, quale che sia il significato attribuito loro, fosse pure casualità o neutra coincidenza.

Un’ultima osservazione, sul significato della mia presenza in quella stanza, su quel confine (in altri termini, sul ruolo dell’arteterapeuta).

La prima parola che voglio usare è: possibilità. Al di là delle caratteristiche professionali (che sono necessaria premessa) e personali (che danno forma a qualsiasi scambio relazionale), cosa ho offerto, a Carmen? Una possibilità, mediata dai materiali artistici, di rappresentare e rappresentarsi, di lasciare una traccia, di dare una forma al momento, di fare un ultimo gesto creativo nel senso più profondo di generatore di senso. Senza quel foglio e quella matita non si sarebbe data linfa a quelle foglie, semplicemente.

Il secondo aspetto che mi sembra utile rilevare è l’importanza dell’essere compagna e testimone di questa possibilità, colta ed interpretata da Carmen. Spesso, in uno spazio di liminarità come quello del fine vita, in cui è stato necessario confrontarmi con la rabbia, l’abbandono, il rifiuto proprio di questa possibilità creativa, o all’opposto con la morte di chi quella possibilità aveva voluto e potuto interpretarla, mi sono interrogata sul senso dell’essere lì. Ed eccolo il senso: tenere la tavoletta con il foglio davanti alla mano di Carmen, temperare la matita, se occorre, incoraggiare, se necessario, restare in silenzio, difendere con ferma gentilezza i contorni del recinto sacro dalla voce inopportuna di chi non sa cogliere la bellezza.

Essere presente nel momento dell’accadere e diventare testimoni di ciò che è accaduto, del segno lasciato, pur nella transitorietà di tutte le cose umane.


1    JODOROWSKY, A., (2004), Psicomagia. Una terapia panica, Feltrinelli, Milano 2009, p.208

2    Cfr. JUNG, C.G., L’analisi dei sogni. Gli archetipi dell’inconscio. La sincronicità, Bollati Boringhieri, Torino 2011, p.205: “Sincronicità significa allora anzitutto la simultaneità di un certo stato psichico con uno o più eventi esterni che paiono paralleli significativi della condizione momentaneamente soggettiva e – in certi casi – anche viceversa”

3    Cfr. HILLMAN, J., (1996), Il codice dell’anima, Adelphi, Milano 1997, pp. 59-60:  “Soltanto se la narrazione stessa trasmette il senso della bellezza, una biografia può rendere giustizia alla vita che narra. Il simile cura il simile: una teoria sulla vita deve fondarsi sulla bellezza, se vuole spiegare la bellezza che la vita cerca”.

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