cARTeggi – n. 6 – Dicembre 2022


ARTICOLO
RISPECCHIAMENTO E IDENTITÀ – DALLA TEORIA AL SETTING DI ARTETERAPIA
di Elena Moscardini, laureata in Lettere Moderne con indirizzo Artistico Contemporaneo, Esperta di Didattica Museale e Laboratori Artistici, Arteterapeuta Clinica Lyceum Academy

Riflessioni sull’importanza dell’Altro nella costituzione del Sé, attraverso la definizione del concetto di “rispecchiamento”, del suo sviluppo in ambito psicanalitico e del suo intrecciarsi col piano artistico. Come il setting di Arteterapia e il processo terapeutico possono riattualizzare l’esperienza primaria, contribuendo a dare una forma integra al Sé.

“E se smettesse di sognare di te, dove credi che saresti?”

“Dove sono ora, naturalmente”, ribatté Alice.

“Niente affatto”, disse Pincopanco sprezzante.

“Non saresti in nessun luogo.

Perché tu sei soltanto un qualche cosa dentro il suo sogno.”

Lewiss Carroll, Alice attraverso lo specchio.


Così scriveva Lewiss Carroll in Alice attraverso lo specchio, nel 1871, il secondo dei due romanzi su Alice, considerati tra i migliori esempi del genere letterario nonsense. L’affermazione di Pincopanco, ad una prima lettura paradossale, svela in realtà uno dei fondamenti necessari alla costruzione dell’individualità umana: il bisogno di essere pensati. Abbiamo bisogno di essere tenuti nella mente dell’altro, nel suo cuore desiderante, prima ancora che nel nostro.

Se la natura sociale degli esseri umani ha origini antiche (è stata riconosciuta sin dai tempi di Aristotele), la piena consapevolezza di questa natura è arrivata solo molto gradualmente. In particolar modo, l’idea per la quale il Sé richiede un Altro per la sua definizione, risale all’approccio filosofico della Fenomenologia di Heghel che nel 1807 afferma che “l’autocoscienza raggiunge il suo appagamento solo in un’altra autocoscienza”, spiegando che ciò che determina l’uscita dell’autocoscienza da sé stessa è il desiderio di riconoscimento. (1807, pag. 151)

Così Alfred Adler un secolo dopo In Psicologia del bambino difficile scrive: “Non esiste un intelletto privato. Un intelletto dell’individuo. L’intelletto ha un valore generale. Esso si è sviluppato comprendendo gli altri, avvicinandosi ai propri simili, identificandosi con loro, vedendo con i loro occhi, udendo con i loro orecchi, sentendo con i loro cuori.” (Adler, 1930, pag. 35).

Ne Il bisogno di tenerezza del bambino, pubblicato nel 1914, Adler, pur essendo ancora all’interno di un modello energetico che considera il “bisogno di tenerezza” come una pulsione primaria, (quindi rifacendosi a Freud che come noto elabora la teoria energetico-pulsionale per spiegare le origini, lo sviluppo e il funzionamento della mente umana) cerca di prendere le distanze da una concezione pansessuale e libidica, e sottolinea come il bambino, a cui sia stato negato l’accesso alla soddisfazione del primordiale “bisogno di tenerezza”, possa tendere verso posizioni di ripiegamento narcisistico o di aggressività.

Il bisogno di reciprocità e di tenerezza primaria adleriano anticipa quindi i concetti di holding e di handling (contenimento, accoglienza e manipolazione, definizione dei confini fisici) di Winnicott; la teoria della capacità di rêverie della madre di Bion, (capacità della madre di ricevere le impressioni emotive e sensoriali del bambino e di elaborarle in una forma che la psiche del neonato possa re-introiettare e assimilare); la concezione dell’intersoggettività di Stern che configura lo sviluppo infantile entro un contesto relazionale ove il bambino e il proprio caregiver primario si orientano, fin dai primi momenti, mediante uno scambio emotivo-affettivo reciproco, costante sul piano fisico e psicologico.

Negli ultimi decenni, numerosi studi hanno evidenziato anche gli effetti negativi di una insufficiente funzione protettiva dei caregiver e di comportamenti genitoriali contraddittori o caratterizzati da stati di stress e di sofferenza, che metterebbero a rischio lo sviluppo infantile e porterebbero all’insorgenza di problemi comportamentali durante l’adolescenza, a seconda di una suscettibilità individuale differenziale, per cui più numerosi sono i fattori di rischio, maggiori saranno le conseguenze sullo sviluppo del bambino. (Liverta Sempio, 2011)

Nelle prime fasi dello sviluppo fisico e psicologico i bambini sono privi di un senso del sé corporeo e incapaci di attribuire delle spiegazioni mentali e simboliche alle proprie esperienze.

Uno dei momenti fondamentali nella formazione e nello sviluppo della psiche di un bambino, è la presa di coscienza che ciò che vede guardando la propria immagine riflessa nello specchio non è un altro individuo, ma sé stesso. Jacques Lacan nel 1949, definisce lo stadio dello specchio il momento dell’identificazione primaria, cioè quel periodo che garantisce un collegamento tra l’organismo e l’ambiente, tra il mondo interno e quello esterno, poiché riconoscersi intero allo specchio comporta per il bambino – attraverso fasi successive, indicativamente tra i 6 e i 18 mesi – una definizione dei propri confini fisici e impone la definizione dei confini che lo separano dalla madre.

Lo stadio dello specchio rappresenta quindi la matrice dalla quale prenderà forma l’Io ed è per questa ragione che il comportamento materno, verbale e non verbale, nel momento in cui il bambino si guarda allo specchio gioca un ruolo fondamentale nella sua formazione, nel suo linguaggio e nella sua postura.

Donald Winnicott In Gioco e realtà, nel 1971, racconta di essere stato influenzato dallo studio di Lacan e in particolare da Lo stadio dello specchio del 1949, ma si spinge oltre, affermando che: “Lacan, però, non pensa allo specchio in riferimento al volto della madre.” Secondo Winnicott, infatti, quando il bambino viene allattato al seno, ciò che vede mentre guarda sua madre è sé stesso. Questo è possibile perché una buona madre è in grado di identificarsi con ciò che prova il suo bambino, restituendogli, proprio come farebbe uno specchio, l’immagine di sé stesso e di ciò che sta provando, attraverso espressioni del volto congrue al suo stato emotivo.

Ma cosa succede quando questa sintonizzazione non avviene?

Winnicott spiega che molti bambini, hanno una lunga esperienza di non riavere indietro ciò che danno. La loro personale capacità creativa comincia ad atrofizzarsi e spingendosi oltre, in direzione della patologia, “c’è una prevedibilità precaria, che comporta la minaccia del caos, e il bambino organizzerà il ritiro”, oppure comportamenti adattivi con la costituzione di un falso Sè. (Winnicott, 1971, pag. 183)

Sin dal 1959, un altro medico, Heinz Kohut pone l’accento sull’importanza di un riconoscimento empatico per la costruzione del Sé, riconoscimento che non deve fermarsi ai primi mesi dell’individuo, ma proseguire per l’intero corso della vita.

Kohut spiega come il vero inizio del Sé non sia l’attimo in cui il bambino raggiunge un’autoconsapevolezza riflessiva, ma quello in cui le sue potenzialità e le aspettative dell’oggetto-Sé nei suoi riguardi convergono.

Secondo Kouht sebbene “il neonato non possa avere alcuna consapevolezza riflessiva di sé egli è fuso fin dall’inizio attraverso un’empatia reciproca con un ambiente che lo vive come se già possedesse un Sé: un ambiente che non solo anticipa la successiva distinta autoconsapevolezza del bambino, ma che già, attraverso la forma stessa e lo stesso contenuto delle proprie aspettative, comincia ad incanalarla in direzioni specifiche”. (Kohut 1977; trad. it. 1980, pag, 100)

Secondo Bateman e Fonagy (2006) nei primi mesi di vita il neonato sperimenta uno stato del Sé non psicologico. Il mondo è rappresentato in termini somatici. Per poter sviluppare un Sé psicologico, riflessivo (dai 6 mesi), necessita di una persona che rifletta il suo stato mentale e pensi a lui come essere pensante. Il genitore, quindi, “riflette” sul proprio bambino: rappresentandosi i suoi pensieri, bisogni, intenzioni, cerca di interpretarli e comprenderli. Al tempo stesso l’adulto esplicita i propri processi mentali, traducendoli in espressioni del volto azioni e linguaggio, così che il bambino possa riconoscervisi e identificarvisi.

Esperienze inadeguate di rispecchiamento impediscono quindi la formazione di rappresentazioni simboliche degli stati affettivi e rendono più difficile distinguere la realtà fisica da quella psichica. Ripetute interazioni deficitarie possono dare origine a marcate difficoltà nella capacità di tollerare e regolare le emozioni autonomamente. (Batman, Fonagy, 2006)

Il filosofo ungherese Gyorgy Lukács ritiene che l’opera d’arte sia in grado di oltrepassare la realtà come la vede l’uomo nella sua quotidianità fornendogli un rispecchiamento “più fedele, più completo, più vivo, più mosso” della medesima realtà da lui altrimenti posseduta (Lukacs, 1968, p. 157) e possa permettergli una visione di certi aspetti di quella realtà (in cui egli stesso vive, sente, pensa e agisce) più profonda, più concreta, di quanto non gli consentirebbero i limiti delle sue proprie esperienze.

Ritiene quindi che il termine “rispecchiamento” debba fare da costante promemoria dell’oggettività dell’arte, ma non implicare la copia, la fotografia o un qualsiasi genere di tecnica naturalistica. L’opera d’arte deve mirare alla rappresentazione di ciò che è effettivamente tipico, facendo emergere il significato più autentico, le tendenze profonde ed essenziali di un insieme sociale. Per questa ragione l’artista si fa in qualche modo rappresentante dell’umanità. (Lukács, 1968) E come vi riesca lo spiega magistralmente il neuroscienziato Vittorio Gallese, attraverso l’introduzione del concetto di “simulazione incarnata”. Gallese offre infatti una nuova prospettiva al concetto di rispecchiamento, grazie ad uno sguardo interdisciplinare che partendo dalle neuroscienze e dalle basi fisiologiche dell’intersoggettività, attraversa il campo dell’estetica per arrivare a quello artistico.

Ci ricorda che ogni volta che osserviamo le azioni altrui il nostro sistema motorio “risuona” assieme a quello dell’agente osservato e che il meccanismo di rispecchiamento non è confinato al dominio delle azioni, ma attiene anche al dominio delle emozioni e delle sensazioni. (Gallese, et al. 2006) Sostiene infatti che solo grazie a questi meccanismi condivisi ci è permesso di comprendere le esperienze altrui direttamente e “dall’interno”. Secondo questa prospettiva, l’intersoggettività, alla sua base, è prima di tutto intercorporeità. (Gallese, et al., 2009) La risonanza interindividuale, che Gallese definisce “simulazione incarnata”, diviene cruciale anche per interpretare l’arte, la creatività e la dimensione estetica dell’esistenza umana. (Gallese, 2010)

In un lavoro pubblicato con lo storico dell’arte David Freedberg, nel 2007, Gallese ipotizza che, anche qualora l’opera d’arte non abbia alcun contenuto direttamente identificabile in termini di azioni, emozioni o sensazioni, in quanto priva di un riconoscibile contenuto formale (pensiamo a un’opera di Lucio Fontana o di Jackson Pollock), i gesti dell’artista nella produzione dell’opera d’arte inducano il coinvolgimento empatico dell’osservatore, attivando in modalità di simulazione il programma motorio che corrisponde al gesto evocato nel tratto o nel segno artistico. Questo perché i segni sul dipinto o sulla scultura sono le tracce visibili, le conseguenze degli atti motori attuati dall’artista nella creazione dell’opera. Ed è in virtù di questo motivo che essi sono in grado di attivare le relative rappresentazioni motorie nel cervello dell’osservatore. (Gallese, Freedberg, 2007)

Come suggerisce Mimma della Cagnoletta, l’esperienza del rispecchiamento, “è la ricerca interiore di una corrispondenza empatica, esprimibile in parole, ma più spesso non verbalmente, piuttosto con espressioni facciali, gesti o forme artistiche. Attraverso il responso empatico, il terapeuta può mettere allora le basi per la creazione di uno spazio potenziale che, non essendo né dentro né fuori del paziente, ma fungendo da ponte, rappresenta e contiene allo stesso tempo paziente e terapeuta.” (Della Cagnoletta, 1998, pag. 46)

Rosaria Mignone, partendo dal presupposto di Searles secondo cui “il volto della madre è il primo specchio emozionale ed è attraverso la sua riflessività che il bambino diventa capace di conoscere le proprie emozioni” (Searles, 1974, cit. in Mignone 1998, pag. 168), ci descrive l’esperienza del rispecchiamento in un’ottica evolutiva, per poi arrivare ad applicare queste premesse teoriche all’arteterapia. Ci parla quindi di uno specchio narcisistico, di uno specchio transizionale e di uno specchio oggettuale, come di esperienze di rispecchiamento nello sviluppo umano, che vengono riattivate attraverso il processo terapeutico, che ha la funzione di “riattualizzare l’esperienza primaria, di dare una forma integra al Sé, di consentire l’introiezione dello sguardo che dà forma.” La Mignone descrive allora “il rispecchiamento narcisistico nel prodotto e nel terapeuta come un’esperienza in cui il paziente è confuso con l’immagine che crea, il prodotto è il suo prolungamento e la relazione terapeutica è di tipo narcisistico.

Il terapeuta cerca di promuovere una graduale separazione dall’oggetto creato perché il paziente possa riconoscersi al suo interno rendendo così possibile un rispecchiamento nel prodotto artistico di tipo transizionale: il prodotto artistico, assumendo qualità transizionali, rappresenta il Sé del paziente e la relazione terapeutica.

Infine, nel rispecchiamento oggettuale in arteterapia il paziente ha introiettato la capacità di riflettersi e di riconoscersi nell’immagine prodotta” (Mignone 1998, Pagg. 178-180)

Se il prodotto artistico è il primo specchio, capace di restituire un’immagine di sé all’utente, il setting può allora essere considerato un luogo in cui ricreare le condizioni di holding necessarie al corretto accudimento della persona; il materiale artistico può, per sua natura, essere un terreno fertile da cui far fiorire/riaffiorare emozioni e risorse, che necessitano della giusta esposizione alla luce/sguardo del mondo; la figura dell’ arteterapeuta può guidare questo processo, restituendo la giusta attenzione all’individuo e a ciò che emerge dal suo processo creativo; e il gruppo di lavoro, quando presente, è in grado di riflettere/testimoniare e farsi memoria di questa evoluzione.


Bibliografia

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